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IL GREMBO PATERNO

di Chiara Gamberale (1977)

Sono arrivata a Roma più di vent'anni fa, e ogni volta che capitavo in un posto come quello, la casa di un autore del programma, di un'amica di un'amica o di un qualche ragazzo, mi sentivo come quando sta per piovere ma non piove e tutto si appiccica, le ascelle e i capelli e i vestiti: che umidità. Ogni spazio sobrio, disordinato quel che bastava perché sembrasse vissuto con piacere o arredato con un gusto originale – in realtà autorizzato da qualcosa che era destinato a sfuggirmi, ma che, come quel kilim, veniva da lontano, da un continente che però non stava da nessuna parte e si scioglieva nel sangue di chi abitava lì -, mi rimandava alla casa dei miei genitori, dove ci eravamo trasferiti dopo che mio padre aveva aperto il supermercato, al pavimento di maioliche lucide scelto da mia madre perché fosse facile da lavare, agli uccellini Swarovski in fila lungo il mobile del televisore, al quadro all'ingresso, un acquarello del Monte Panettone di Tonino Capracotta, un professore di disegno tecnico che era arrivato al Paese dalla Piccola Città.

Il confronto fra quella casa e le altre, anche se di confronto esattamente non si trattava: era qualcosa di meno violento ma di più insopportabile, apriva dentro di me una vertigine dove ogni possibilità di fidarmi della persona che ero caracollava.

  • G. Gamberale, Il grembo paterno, Feltrinelli, Milano 2021, pp. 16-17.

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