Il 25 aprile del 1945 mio padre s'era, da poche settimane, lasciato alle spalle tre anni di servizio militare ma indossava ancora lo sbrindellato grigioverde dei badogliani, infestato di pidocchi. Ai piedi aveva un paio di scarpe con i lacci che tenevano insieme suola e tomaia.
La casa l'aveva persa un anno prima quando i nazisti in ritirata avevano minato e raso al suolo il suo paese, Capracotta in Molise. Sotto le macerie erano stati sepolti per sempre tutti i ricordi e le foto dell'infanzia e dell'adolescenza. Non sapeva che fine avessero fatto la madre vedova e l'unica sorella, sfollate da qualche parte in Puglia. In tasca non aveva una am-lira che fosse una. Non sapeva dove andare e non aveva un posto dove tornare. Aveva 22 anni e il futuro gli sembrava facile come trovare la via d'uscita da un labirinto con gli occhi bendati. Ma quel giorno di primavera, raccontava, provò una delle gioie più forti e colorate della sua vita.
Per lui e per gli italiani ai quali il destino aveva concesso il dono di sopravvivere alla barbarie della guerra il 25 aprile fu un'alba di indicibile dolcezza, un giorno di festa indimenticabile, la follia di una porta che si apre su un futuro al quale si chiedeva, prima di ogni altra cosa - prima del pane e del vino, prima ancora di un tetto - la grazia dell'oblio. Sessant'anni dopo, gli italiani sembrano aver dimenticato per sempre l'arte di dimenticare. In un Paese ossessionato dalla memoria, la ricorrenza della Liberazione che nasce da quella gioia incontenibile di gettarsi alle spalle il ricordo della violenza, sembra aver smarrito - se mai l'ha posseduto - il suo senso originale (pagano e insieme cristiano) di festa per la riconquistata libertà, per quella povera patria vestita di stracci sottratta al delirio di sopraffazione dei nazisti occupanti e restituita agli italiani, a tutti gli italiani.
Dimenticare, abbandonarsi al flusso insignificante della vita è il senso e il segreto della festa che, per un giorno, infrange l'ordine strutturato del tempo. Le feste nazionali sono questo, nascono per essere questo: una deliberata sospensione del ricordo dei torti reciproci che, se continuamente sottolineato, perpetua la violenza, rinvia la pacificazione. Il 14 luglio, il 4 luglio sono giornate in cui i francesi e gli americani festeggiano ballando nelle strade, andando nei parchi a mangiare e bere fino a notte quando i fuochi d'artificio chiudono, con la sapienza perfetta dei riti, quella taumaturgica sospensione dell'ordinario.
In Italia il 25 aprile è il giorno del ripiegamento sul passato per scovare altri torti subiti, altre ragioni non riconosciute, per fare la conta di chi stava (sta) dalla parte giusta e chi da quella sbagliata, per ricavarne, infine, un rendiconto, aggiornato di anno in anno, di quanti sono legittimati a festeggiare e di quanti, invece, devono tacere, disertare le cerimonie. Il feticismo della memoria che invade il discorso pubblico italiano - il dibattito culturale si esaurisce quasi interamente nelle rievocazioni e negli anniversari - paralizza la coscienza nazionale e la insterilisce, inchiodandola a un culto del passato che ha sacerdoti inflessibili. Si smarrisce così, in questo perpetuo censimento dei giusti, il senso di un futuro che, 60 anni dopo la fine della guerra civile e della Resistenza all'occupante nazista, può germogliare solo sul terreno irrorato della virtù laica dell'oblio che i cristiani chiamano perdono.
"Angelus Novus" è il nome di un acquerello di Klee che raffigura un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. L'angelo ha le ali dispiegate e la bocca aperta. Walter Benjamin possedeva quel dipinto amato sopra ogni altro e non riuscì mai a staccarsene. Dovette farlo alla fine, il filosofo ebreo di Berlino, prima di togliersi la vita a Port-Bou alla frontiera tra Francia e Spagna, in fuga dai nazisti. L'aveva ritagliato dalla cornice e infilato in una valigia. A quell'angelo l'autore dei "Passages" dedicò una delle sue «Tesi di filosofia della storia», la nona:
«C'è un quadro di Klee che si intitola "Angelus Novus"», scrive Benjamin. «Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, lui vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta, che si è impigliata nelle sue ali, spira dal paradiso, ed è così forte che non può più richiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui in cielo».
Quell'angelo assomiglia a noi, italiani del 2005, ammaliati dalla memoria, lo sguardo fisso sulle macerie di risentimento del passato, sospinti dalla storia verso un futuro che ci rifiutiamo perfino di guardare.
Giuliano Di Tanna
Fonte: G. Di Tanna, Elogio dell'oblio, in «Il Centro», Pescara, 25 aprile 2005.