È un animale leggendario ancor più della salamandra e dell'unicorno. Nei primi giorni si regge a malapena, poi, malfermo sulle gambe lunghe e deformi, tenta i capezzoli materni fino all'ora in cui, oramai svezzato, si protende a brucare. Eppure non arriva a conoscere l'erba salata dai pastori per assetare la pecora e gonfiarla di latte. Il coltellaccio spegne i suoi belati e, solo sul piatto, ritrova le insalate offerte a contorno. Una infanzia corta. «L'agnello comincia ad essere buono in dicembre – dice Artusi – e per Pasqua o è cominciata o sta per cominciare la sua decadenza».
Il suo incontro con il lupo è ancorché ipotetico. Il solo episodio della sua puerizia degno di una certa letteratura, vuoi che ammonisca a non lasciar anzitempo le lane materne e a ritener la sete, vuoi che esprima il sacro egoismo del carnivoro. È stato glossato per secoli fino a giunger al sottilissimo argomento di Pellegrino Artusi che invoca la decadenza dei deboli come giusta e naturale causa del loro sacrificio, facendo omaggio alla filosofia (e alla cucina) del tardo Ottocento. Dopo di che, il lupo, vera vittima del progresso, figurerà come una specie in estinzione, e l'agnello, incrociato con razze anglosassoni, crescerà di statura, di peso, di lombi.
Non pochi segni di questa tardiva rivincita delle greggi sui naturali persecutori, uomini e fiere, si ritrovano nelle migliori pagine di questo secolo. Un certo spirito di rivolta serpeggia persino nelle favole. Di Carlo Emilio Gadda, codesta dedicata non già ai forchettoni ma alle matrone: «L'agnello di Persia incontrò una gentildonna lombarda che prese a rimirarlo con l'occhialino. "Fedro Fedro", belava miseramente l'agnello: "Prestami il tuo lupo!". Che il vate sia o no profeta, il nero e ricciuto vello sciita si è rarefatto per le strade e nelle chiese senza che, per altro, sia andata estinguendosi la razza delle signore milanesi. La moda, si sa, è uno dei segni della decadenza».
In cucina invece è disponibile tutto l'anno. Da Pasqua all'Avvento, si possono preparare costolette che hanno forma e profumo uniformi. La pecora, aromatizzata dai ciuffi d'erba e dall'aria pungente dei pascoli di Capracotta nelle montagne del Molise, è invece scomparsa. Qualche peregrino cuoco, nato fra i sassi, stipendiato a Roma o al nord, ne conserva memoria e ne omaggia, di rado, gli ospiti. Secondo il principio per cui solo il latte della madre garantisce l'autenticità e la salute dei suoi pargoli, bisognerà ammettere che anche in questo caso si parla oggi, per convenzione, di agnello ma s'intende in realtà: lamb, un bambinone vaccinato e svezzato.
Nelle pagine della "Cucina molisana" di Anna Maria Lombardi e Rita Mastropaolo (Arti grafiche La Regione editrice, 1986, due volumi, lire 25.000), nei ricettari dei dirupi e dei fianchi montani, nei manuali della gastronomia pastorale, talora invece, rispuntano i colori retorici della stagione, del prato e delle margherite e si ha l'illusione di una carne aromatizzata da sapide essenze e preparata "alla furnacella", "alla tiana", "alle olive", "con i carciofi", con la cicoria, il luppolo selvatico o "i lampasciune".
Va sottolineato che, oggi, al goloso si risparmiamo i belamenti, il sangue e tutti i riti suscitatori di immagini tormentose, lupi, croci, strazi. Il cadavere del nostro lamb, generalmente decollato, porta la morte con pulizia e astratta insensibilità. La sua preparazione, in altri tempi e in altre cucine, è stata invece un piccolo riflesso delle esecuzioni capitali. Ne citiamo solo uno, in uso alla corte di Francia fino al '700, per il giorno di Pasqua appunto. La fonte è "Il grande dizionario di cucina" di Alexandre Dumas.
«Si dissossava il collo di un agnello di sei mesi, spezzato il petto, vi venivano sistemate le due spalle, legandole con una cordicella, lo stesso si faceva con le cosce, dopo averne rotto l'osso. Quindi si apprestava un ripieno con carne di agnello pestata, rossi d'uovo sodi, pane raffermo, erbe aromatiche e spezie. Il tutto lardellato, passava ad arrostire a fuoco vivo, su di uno spiedo».
Sulla ruota, le membra del criminale venivano frante a colpi di mazza ferrata, e da lì spedite al rogo, poi giudici più umani decisero di bandire tali spettacoli, molto goduti, molto applauditi. Anche l'agnello non venne più dissanguato, scuoiato e franto in famiglia. Lo si compra e prepara già a pezzi. Sarà un sintomo di sensibilità, un indice di infiacchimento delle razze umane ed ovine, ma ormai i belati non fanno venire l'acquolina a nessuno né accettiamo di ripulire un cranio, inghiottire un occhio o masticare un budello. Restano le reminiscenze e alcuni rimescolamenti simbolici, fra cui, dal Molise e da ricettario sopracitato, "casce e ova". «Un chilogrammo di agnello, un bicchiere di olio di oliva, una cipolla, un ciuffo di prezzemolo, un bicchiere di vino, otto uova, 200 grammi di formaggio pecorino grattugiato, una spolverata di pepe, un odore di noce moscata e sale. Versate l'olio in un tegame da forno, aggiungetevi cipolla affettata a velo e fatela appassire a fuoco moderato, unitevi l'agnello tagliato a pezzi e, dopo averlo fatto rosolare a fuoco vivo, spruzzatelo col vino. Salate la carne e lasciatela cuocere bagnandola con qualche mestolo d'acqua calda. Intanto, in una terrina battete le uova con il formaggio ed il prezzemolo tritato, salate, pepate, profumate il composto con una grattata di noce moscata, fatelo amalgamare bene e versatelo sulla carne quando sarà ben cotta, smuovendola con una forchetta affinché le uova penetrino dappertutto. Lasciate bollire alcuni minuti, quindi infornate il "casce e ova" a 150 gradi circa fino a quando sulla superficie si sarà formata una crosticina dorata».
Contro la decadenza, se non dell'ovino, almeno di suo fratello Abele, in questa ricetta fioriscono i simboli della Pasqua e del pascolo, le uova, l'erba (il prezzemolo), il latte (il pecorino). I poveri aggiungevano alla poca polpa infilzata su schegge di ossa o alle frattaglie, altro formaggio e molta mollica. È un'idea da tenere in caldo, un sotterfugio vegetariano che lascia intatto il mistico agnello pur perpetuandone il sacrificio. La cucina, in fondo, è conservatrice, rispetta santi e feste senza andare in chiesa tutte le domeniche, e solo di tanto in tanto, ha qualche impennata filosofica, modernista, che si smorza in un rosario di ricette, intonate da più voci sulla stessa cadenza, sulla medesima cantilena.
Alberto Capatti
Fonte: A. Capatti, L'agnello, in «L'Unità», Roma, 31 marzo 1988.