Vi è una poesia che costituisce un monumento più perenne del bronzo, più eccelso delle piramidi regali, per la quale il poeta può esultare nella speranza di non morire intero, perché il suo nome si immedesima e forma una cosa sola con la nobiltà dell'oggetto cantato, con la soave armonia del canto che vince il silenzio dei secoli.
Vi è un'altra poesia, anch'essa eterna, che agile e snella moltiplica le sue movenze gentili, nel tempo e nello spazio, pur restando sostanzialmente uguale; una poesia che va senza nome d'autore, perché quanti la sentono se la appropriano e l'usano come cosa loro; una poesia che ha un obbietto che mai non cessa né muta, ed un poeta che si rinnovella e si perpetua oltre i limiti angusti della vita dell'individuo: il popolo.
La poesia popolare risponde ad un bisogno ideale collettivo, traducendo in una forma, che meglio della lingua scritta si adatta alle pieghe del pensiero, i sentimenti più delicati e più vivaci; non ricercatrice di preziosità ridicole o di immagini lambiccate, ma sicuramente fondata sopra un ampio sostrato di concetti universali e tradizionali.
A questo elemento universale si innestano, per lo stesso principio e nella maniera istessa, i sentimenti particolari di una intera nazione, ed anche di una sola regione. Si intende poi di leggieri come questa forma d'arte spontanea, anzi necessaria, resista meglio di ogni altra alle infiltrazioni di elementi estranei, assai meglio della poesia aulica, che facilmente o troppo dilaga nell'universalizzare o troppo risente dell'individuo.
Il popolo, che ha taccia di esser tanto propenso alla novità, di fronte alla importazione artistica è assoluto, in virtù di quel peculiare carattere che esso sente, senza conoscerlo e senza poterlo mutare; di fronte alla importazione artistica esso rigetta, trasforma, o accoglie interamente, secondo che la forma nuova si adatti più o meno a dar ricetto al suo genio. Ecco perché certe forme di poesia popolare cavalleresca, tanto fortunate altrove, non ebbero mai fortuna tra questi monti, dove trovarono più o meno larga ospitalità la cantilena Siciliana e lo stornello balzante della Toscana.
La poesia del popolo ha per carattere distintivo la sincera spontaneità; quindi essa coincide con le origini di tutte le letterature e ne forma quasi il substrato. In seguito si separa dalla poesia aulica la quale si fa ardita e sfolgorante, quanto quella è umile e rimessa; ma non si spegne per questo, ma continua a svolgersi per suo conto nel breve ambito di quel vero, di quel buono, di quel bello che sono eterni ed accessibili a tutti. Così quando la immaginazione dei poeti esulta ed aberra, tentando Icarici voli, l'intelletto stanco dietro quella corsa insana, ripensa questa limpida fonte perenne, in cui troverebbe balsamo e vigore novello il genio abbruciacchiato dal sole che ha voluto mirare da presso, più che natura non consenta.
Gli studi della storia letteraria si iniziarono sempre dalla prisca poesia popolare, e questo studio ci rivelò la grandezza dei poeti greci che, pur dando alla forma squisitezze non mai raggiunte, si discostarono meno di ogni altro dalla fonte della ispiriazione popolare. Il tempo nostro, affaticato dalle stranezze poetiche di superuomini e di decadenti, rinnovellò e rese costante lo studio di questa arte umile che non muore mai: il follclore scoprì e rivelò bellezze nove, sulle quali il Rubieri ed il D'Ancona han già iniziata l'opera geniale.
Abbiamo detto che qualità essenziale della poesia popolare è la sincerità; ne nasce di conseguenza che questa poesia sarà specchio fedele del carattere del popolo che l'ha creata o che l'ha fatta sua. Ed il carattere immutato dell'antico sangue Sannita si rivela intero nei canti che noi siamo andati raccogliendo per le campagne dell'alto Molise, dalle bocche rustiche dei villici e dei pastori, e da quelle porporine delle virili fanciulle, intese alle rudi fatiche del campo.
Noi dividiamo quesi canti in sei classi: religiosi, leggendarii, morali, didascalici, amorosi, satirici: che rispondono ai diversi atteggiamenti dell'anima di quei semplici montanari; però questi generi si intrecciano e si confondono; tanto la fede, la tradizione, la pratica della vita, la virtù ed il sentimento si confortano l'un l'altro là dove una falsa civiltà non ponga l'uno sopra tutti.
Volendo dare un piccolo saggio di quei canti, ci limiteremo per ora a quelli d'amore, e perché sono i più caldi ed i più belli, come quelli che esprimono i moti più forti dell'anima, e perché ci sembrano più adatti a piacere ai giovani pei quali precipuamente è fatto questo giornale; i quali apprenderanno che uopo non è di delitti, perché nobili e puro si riveli un sentimento che naturalmente rivendica a sé tutta la esuberante energia di giovinezza.
Il verso non nasce che col canto, una melopea per lo più, dal ritmo lento, pieno di passione; di rado diventa allegro e balzante: d'altra parte il popolo nostro evidentemente predilige le note tenute lungamente e tende ad allargare il tempo fin dei motivi noti.
La strofe è per lo più un breve distico rimato di endecasillabi, che racchiude tutto un concetto come il distico elegiaco classico, ma di questo più conciso; di rado si ha la forma di quartina, di sestina e quella del rispetto toscano. Nella canzone il dialetto evidentemente si eleva: abbiamo quindi un dialetto poetico che s'accosta di più alla lingua. Ad ogni modo nelle citazioni seguenti noi abbiamo tolto non le forme, ma certe inflessioni di voce dialettali difficili ad esprimere con lo scritto e che avrebbero reso necessaria una traduzione intera per la intelligenza del testo, ove non si fossero volute moltiplicare all'infinito le note.
Quando fa calle è l' meglio di dormije,
quando fa frische è l' meglio di cantaje.
L'amore si sposa all'affetto del luogo natio:
A Capracotta non ci tengo niente
e a lu Castiello ci tengo l'amante.
E l'aria a lu Castiello è assai gentile:
beato chi ce te' la nnamurata.
Da Napole m'è venuto 'nu cartiello:
la meglio gioventù stà a lu Castiello.
O varca col desiderio i monti:
Vurria spianaje l' colle di Tulete
pe' vedeje l'amore se si vede.
Vurria salì l' colle di Capracotta
pe' vedeje l'amor che mi riporta.
Questo è l'amore quale nasce, vive, si svolge nelle anime semplici dei miei buoni Molisani: amore puro, pieno di idealità; che scerhza talora ardito, ma che nei sentimenti della famiglia e della religione trova due argini potenti alla foga della passione. Ché per il fallo d'amore non v'è perdono, ma disprezzo, onta, sarcasmo crudele:
Jesce, serpa nera, da 'ssu muro:
non tie' marito e ti' la criatura.
Se un giorno mi sarà concesso di mostrarti, cortese lettore, come questo popolo senta, creda, voglia, operi, rispecchiato in altri semplici versi, non meno degni del tuo esame, tu comprenderai, come io comprendo, quanto si possa sperare ed attendere dalla nostra gente, che nella sua rozzezza si meritò il doppio titolo di lode: forte e gentile.
Alberto Salvi
Fonte: A. Salvi, Agrestis calamus, in «Italica», I:2, Sulmona, 15 marzo 1906.