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Amore e gelosia (XLIII)



XLIII

Il dondolio del treno ebbe un effetto soporifero sul poeta: senza che se ne accorgesse, il mento poggiato sull'immancabile bastoncino da passeggio, si ritrovò immerso in un delizioso pisolino cui pose fine dopo una ventina di minuti uno scossone del treno che si inoltrava nella stazione di Torre del Greco.

Uno dei passeggeri seduto accanto a lui doveva scendere e per fargli posto, anche don Salvatore dovette alzarsi.

A quel punto decise di sgranchirsi un po' le gambe: al massimo un'altra ventina di minuti e sarebbe giunto a Napoli, tanto valeva restare in piedi e farsi un giro per i vagoni.

E così fece: lasciò la seconda classe e si inoltrò per la terza: veri carri bestiame! Non c'erano poltrone, solo panche di legno e anche senza schienale, e una umanità povera e misera si affollava su quelle dure tavole, diretta alla capitale del Sud, Napoli.

Un moto istintivo di compassione colse il poeta, alla vista di una donna, una popolana con un bambino in braccio che frignava lamentandosi a tratti. Panni laceri, uno scialle verdastro accoglieva in un tutt'uno madre e figlio, e i due si intrecciarono ancor più quando, per farlo quietare, la donna cacciò fuori un seno enorme e lo mise in bocca al bambino, cullandolo allo stesso tempo per farlo addormentare.

Don Salvatore si allontanò scuotendo la testa: scene simili erano all'ordine del giorno, la povertà la faceva da padrona in quegli anni e l'accesso al cibo era una continua lotta, incessante, per i milioni di proletari affamati in giro per il regno italico.

"Ne partene a migliaia tutte 'e iuorne pe l'America con i piroscafi, e ce ne sono sempre tanti che muoiono di fame"...

La triste considerazione che gli venne in mente era veritiera: in poco più di 15 anni circa 23 milioni di italiani, stanchi di una vita di stenti, migrarono in massa, verso gli Usa e l'Argentina: navigarono come bestie rinchiuse nelle stive dei piroscafi, per lottare, per morire (e ne morivano tanti) e infine per rifarsi una vita...

Ma questa è un'altra storia...

Finalmente giunse alle carrozze della prima classe e inconsciamente tirò un sospiro di sollievo: ah, come era consolante guardare la bella gente, la gente vestita bene, ben nutrita e dallo sguardo fiero e sicuro!

Era come prendere una boccata d'aria pura, una frizzante boccata d'aria di mare, era come... un momento!

Ma... chi era quella bella signora che conversava cordialmente con due gentiluomini e rideva ad alta voce, anzi con tono squillante?

E quel vestito...

Elisa! Elisa sul treno! Dove stava andando? E con chi? Con quei due signori?

"Non puoi fidarti di nessuno! Le donne? Tutte uguali! Appena giri le spalle, ecco che ti pugnalano! Ed io che la pensavo a casa a piangere, a soffrire per me! E ora che faccio? Mi avvicino e... nooo, qui rischio di fare la figura del cretino! Se sta con quei due, che dico? Sono il fidanzato? Sai le risate che si faranno! Se sta da sola invece, allora sta qui per me, sta venendo a Napoli a casa mia... Devo sapere! E allora ora non mi deve vedere"...

Fece marcia indietro e si mise in una posizione in cui poteva vedere senza essere visto. Elisa, ignara che il suo Salvatore fosse a pochi metri da lei, continuava a conversare cordialmente con i due gentiluomini che aveva conosciuto sul treno.

Parlavano del più e del meno, sorridevano e piano piano il tarlo della gelosia cominciò ad insinuarsi nel poeta.

Tra i due, v'era il più giovane che in una occasione aveva posto la sua mano su quella di Elisa: non l'aveva trattenuta a lungo ma neanche la ragazza si era schernita...

"Qui sta nascendo qualcosa tra quei due, lo sento... È proprio un bel giovane, non come lei ma"...

Tentava di rimanere freddo il poeta, ma fremeva al punto da tremare. E meno male che finalmente il treno entrò nella stazione di Napoli, il viaggio era finito...


Francesco Caso



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