LV
Mammema dice ca
tu nun sì bella...
mammema mme vò da'
'n'ata dunzella.
E io lle dico ca sì,
ca po' mm' 'a piglio...
(Pecché ll'aggia ubberi',
ca lle so' figlio!)
Suffrisce, core mio,
suffrisce tutto,
basta ca doppo
pe chello ch' 'è fatto
tu rummane
cuntento
e surisfatto!
Sono versi di Salvatore di Giacomo, del 1909 o nei dintorni.
Basterebbe leggerli e non ci sarebbe tanto più da discutere o scrivere: tutta la storia che stiamo raccontando è compendiata in questa piccola sofferta poesia...
Come finì la sfida tra le due donne?
E come avrebbe potuto finire diversamente da come essa si concluse?
Elisa perse i suoi migliori anni ad inseguire l'amore di Salvatore, che probabilmente neanche esisteva nel poeta, preso in maniera totale dall'amore per l'arte e dal rapporto morboso, intenso e dittatoriale che ebbe con la madre e con la sua sorella.
Ecco che cosa disse in una sua intervista rilasciata alla nobildonna Elena Bacaloglu, una scrittrice rumena trapiantata a Napoli, amica di Matilde Serao e del giovane poeta Ernesto Murolo:
«Mia madre mi volle tutto per sé... ho obbedito e nella mia obbedienza ha avuto parte un grande rispetto di qualche cosa che, prima, non avevo forse compreso in lei. Ella ha esercitato su me un potere misterioso, anche quando dubitai che un forte e savio egoismo dominasse il mio egoismo. Ma nel suo potere si nascondeva una ragione più alta della volontà di lei. Forse ella mi ha difeso contro le mie debolezze, forse non potevo amare l'amore e in verità sono giunto a sentire che, in fondo, io non amo veramente che l'arte... non si possono servire due padroni. Queste cose mia madre le ha capite prima di me, le ha indovinate e così ha potuto legarmi a sé».
Era questa la verità profonda, che si celava dietro ad un rapporto così burrascoso?
Non credo, mi appare come una verità parziale... ecco perché non ho chiuso con l’epilogo questa storia, questo è un pre-epilogo... c'era di più... c'era l'altra donna... c'era la giornalista, la nobildonna Elena Bacaloglu, la stessa cui il poeta rilasciò l'intervista che abbiamo riportato.
Epilogo
Nel 1908, Napoli era la città d'Italia col maggiore fervore culturale: una rara combinazione di uomini e donne di straordinaria cultura e capacità si era formata nella capitale partenopea che visse anni straordinari di teatro, di poesia e di canzoni.
In quello stesso anno, una nobildonna rumena, Elena Bacaloglu, giornalista, scrittrice, decise di trasferirsi a Napoli dove già godeva dell'amicizia di Matilde Serao, fondatrice del giornale "Il Mattino".
La scrittrice partenopea introdusse subito la nobildonna tra le migliori menti della città, presentandole il giovane poeta emergente Ernesto Murolo e il grande poeta affermato Salvatore Di Giacomo.
Elena Balacoglu era bella, spigliata, colta e donna di mondo: si innamorò di don Salvatore e iniziò una corte assidua, aperta, che se pure non diede i frutti da lei sperati, diede però il via ad una bella amicizia.
Ma non era quello che la donna voleva, era solo quello che al massimo il poeta poteva concedere.
I tentativi di spingere il rapporto fino alle estreme conseguenze furono più e più volte ripetuti da lei, ma invano!
La donna gli dava un appuntamento, lui accettava per poi mancare; lei reiterava l'attacco e lui ancora sfuggiva e sgusciava via, rifugiandosi nel porto sicuro dell'amore per la madre e nella scusa di amare solo l'arte e la poesia.
Fu un vero stillicidio, e solo la perseveranza e la pazienza della nobildonna impedì che la loro relazione degenerasse in qualcosa di negativo, in rancore, rabbia o addirittura odio.
Tutto questo andò avanti per lungo tempo, finché un giorno non giunse al poeta un telegramma di Elena in cui ella chiedeva una spiegazione definitiva.
E il poeta rispose...
Dalla sua risposta che riporterò a tratti, ne vien fuori un quadro non di certo idilliaco dell'uomo e peggio ancora, ne esce distrutta la relazione di Salvatore Di Giacomo con Elisa.
«Il vostro telegramma mi commuove, mi addolora e mi lascia confuso... Una donna come voi siete... Io non devo permettermi di nascondere il mio pensiero e il mio stato... Il mio pensiero è questo: nessuno più di voi mi potrebbe comprendere meglio e accompagnarsi a me per questa altra pochissima vita che vivrò... Ma io non posso mutare le condizioni fatali in cui mi ritrovo per essere stato buono. Non chiedete di più: per essere sincero io devo dirvi che non posso, forse non potrò forse mai uscire dalle catene che mi avvincono. Io non sono libero: la mia onestà non mi permette più di esserlo... Sono rassegnato di fronte a tutte le mie sventure... Lasciatemi dunque al mio destino e perdonatemi se vi ho fatto del male».
L'amicizia con Elena Balacoglu non cessò, la donna continuò ad interessarsi al poeta, ma ormai il sentimento era spento , si trasformò in amicizia amorosa senza alcun impegno da parte di entrambi.
Era la formula che don Salvatore desiderava, la stessa che avrebbe voluto applicare al rapporto con Elisa ma lì non gli fu possibile.
Il perché è detto chiaramente in questo telegramma, e per certi versi è mortificante per la giovane, ma ancor più per il poeta: egli scrive alla sua amante platonica che non è libero (infatti è fidanzato ufficialmente con Elisa) e non lo è per «essere stato buono», non è libero di spezzare le catene che lo avvincono (sente dunque il rapporto con la nostra compaesana come catene che lo avvincono!) perché la sua onestà non gli consente di agire.
Eppure, come dimenticare che quest'uomo ha scritto alcune delle sue più belle canzoni proprio per la donna che sta così tratteggiando male in questo scritto!
Non è compito mio capire più di quanto abbiano già compreso gli studiosi del poeta: un terribile complesso edipico, una sensibilità esasperata, una salute instabile, un amore totale per l'arte possono essere giustificazioni sufficienti per aver mantenuto la bella Elisa in una condizione di incertezza e di precarietà per undici anni, e di averla sposata tardi e anche malandato nella salute.
Eppure...
Io sono certo che Elisa visse tutto ciò con gioia: ella amava il poeta al di sopra delle meschinità umane, lo amava con tutta se stessa e da lui tutto era disposta ad accettare.
Alla fine il suo sogno si realizzò: nel 1916, nella Chiesa di San Giuseppe in Napoli, ella ottenne il sospirato SÌ!
E fu una conquista solo sua!
Vissero insieme per soli 18 anni: lui morì nel 1934, lei gli sopravvisse fino al 1962, dimenticata dai più e dalla stessa Napoli.
Dimenticata anche dalla sua piccola città, Nocera Inferiore.
Questo racconto servirà, spero, a rinnovellarne il ricordo...
Francesco Caso