Lo sciopero bianco, cioè la rigida osservanza dei regolamenti in modo da rallentare la normale attività, è vietato dalla bozza di autoregolamentazione in discussione fra i sindacati: lo sciopero si paga, essi dicono; in altre parole non è lecito danneggiare l'azienda e ricevere salario intero.
I magistrati lo hanno fatto. Perché?
«La loro situazione si è fatta tanto intollerabile da spingerli a gesti disperati»: così ha scritto uno di loro sul "Corriere" del 19 settembre. Le resistenze del governo «favoriscono il processo di destabilizzazione del Paese», ha addirittura dichiarato una delle correnti in cui si articola la magistratura.
Molte critiche rivolge il magistrato Ugo Genesio ad un mio articolo in cui, pur senza disconoscere l'opportunità di aumenti, facevo un confronto fra carriera e stipendi dei 7.500 magistrati e dei 10.000 presidi, e concludevo che i problemi retributivi non vanno risolti uno per volta, ma nell'ambito di un quadro di riferimento generale.
Lasciamo stare le questioni di dettaglio. L'assunto principale del mio interlocutore è che è improponibile ogni confronto fra magistrati e altri lavoratori. Presiedere un tribunale, egli scrive, comporta maggiori responsabilità rispetto ad una scuola. Il che è vero: ma non sempre. Il tribunale di Mistretta ha una circoscrizione di 27.000 abitanti; ed esistono preture come Capracotta con meno di 5.000 persone. Fra i magistrati c'è chi si ammazza di lavoro e chi ne ha troppo poco. Donde l'urgenza di una radicale ristrutturazione: un terzo dei tribunali e metà delle preture potrebbe esser soppresso. I magistrati hanno il merito di aver avanzato da tempo questa proposta: qui sì che hanno ragione da vendere.
C'è invece un confronto che il dottor Genesio auspica: con i professori universitari. Ma non è che questa carriera sia migliore. Nell'olimpo dei "baroni" si arriva dopo una lunga trafila e una notevole selezione; e ottenuta la cattedra, si comincia con 540.000 lire per finire, dopo molti passaggi, a 955.000.
Non si tratta comunque di schierarsi pro o contro i magistrati e le loro richieste. Indubbiamente miglioramenti retributivi sarebbero meglio accettati dalla pubblica opinione se la gente sapesse che vanno avanti i più capaci e meritevoli: se, in altre parole, la carriera fosse un po' meno automatica e un po' più meritocratica (pur con tutti i difetti che qualsiasi forma di giudizio inevitabilmente comporta).
Tuttavia, al di là della questione particolare dei magistrati, il nocciolo della questione è un altro. È accettabile che qualche categoria di lavoratori si consideri avulsa dal contesto retributivo generale?
Se è giusto, come penso, esaminare ogni vertenza sindacale nel quadro complessivo del sistema retributivo, può esser utile un cenno sul trattamento del settore pubblico negli ultimi anni. Anche perché i magistrati si ritengono i più dimenticati.
Il punto di partenza sono i decreti del 28 dicembre 1970, che vanno sotto il nome di «riassetto delle carriere»; in quell'occasione vennero sistemati anche i magistrati, equiparando il consigliere di Cassazione al direttore generale degli statali. Successivamente i miglioramenti sono stati di due tipi.
Scala mobile
L'indennità integrativa speciale era di 27.600 lire mensili, oggi è a quota 168.989; non è stata sufficiente a coprire l'aumento del costo della vita; tutto il pubblico impiego ha perso terreno rispetto a quello privato, perché solo dal 1° luglio 1978 il punto di contingenza è diventato uguale per tutti.
Altri aumenti
Nel 1973 fu istituito l'assegno perequativo (da un minimo di 43.000 lire mensili lorde a un massimo di 129.000 a seconda dei gradi); si voleva assorbire la miriade di indennità e rendere onnicomprensivo lo stipendio, quindi non per tutti si trattò di aumenti veri e propri. Nel 1976 furono concesse 20.000 lire di acconto sui futuri miglioramenti e nel 1977 altre 25.000.
E i magistrati? Ovviamente hanno avuto la scala mobile come gli altri, inoltre hanno fruito nel 1977 dell'acconto di 25.000 lire. Ma il colpo grosso lo fecero nel 1972. Con una sentenza interpretativa relativa all'equiparazione ai dirigenti statali, si auto-aumentarono gli stipendi di 58.500 lire lorde mensili per l'uditore, 97.500 per l'aggiunto, 146.250 per il giudice, 165.750 per il consigliere d'appello, 195.000 per il consigliere di Cassazione.
Per quanto riguarda le prospettive future, l'accordo-quadro del 5 gennaio 1977 per il pubblico impiego prevede la riforma della struttura retributiva da concordarsi categoria per categoria, purché non si superi un aumento medio pro-capite di 50.000 lire mensili, comprensive delle 45.000 già concesse nel 1976-77.
Vogliamo dare uno sguardo al settore privato? L'ultimo contratto, quello dei pubblici esercizi dell'agosto 1978, prevede per il prossimo triennio un aumento di 20.000 lire: 14.000 dal luglio 1978, 6.000 dal luglio 1979.
Il panorama è dunque piuttosto grigio. Non potrebbe essere altrimenti, dato che l'economia ristagna. Reddito crescente da spartire non ce n'è. La solita predichetta? E perché solo ai magistrati? D'accordo, il discorso riguarda tutti. Ma il rischio oggi è che le grandi categorie, più controllabili dalle centrali confederali, finiscano per essere le sole a pagare il costo della crisi; e che la lotta alle ingiustizie retributive si faccia solo al loro interno e magari solo ai livelli più bassi.
Indubbiamente i magistrati hanno ragione se vale la regola di guardare ai privilegiati che stanno meglio. Ma prima di parlare di disperazione, sarebbe giusto pensare che un inserviente ospedaliero oggi guadagna, appena assunto, 256.988 lire e arriva a 355.680 dopo 23 anni; un impiegato d'ordine statale rispettivamente 272.889 e 318.507.
Ripetiamolo fino alla noia. È indispensabile porre la parola fine alle rivendicazioni di settore. Senza un quadro di riferimento generale, il sistema retributivo diventerà sempre più giungla in cui i più forti mangiano i più deboli. Di questo passo con che coraggio si può pretendere che gli operai o gli statali si accontentino di quattro soldi?
Ermanno Gorrieri
Fonte: E. Gorrieri, È ancora valida una rivendicazione di settore?, in «Corriere della Sera», Milano, 29 settembre 1978.