Ovvero l'Ara Petracca, il luogo del sacrificio delle capre di Cotta...
L'avvertenza iniziale è che questo articolo si basa esclusivamente su una suggestione personale e non pretende in alcun modo di corrispondere alla verità storica dei fatti. Tale precauzione è necessaria perché ritengo doveroso, per chi si approccia a queste materie, distinguere sempre ciò che è storia da ciò che è finzione, necessità che si fa pressante vista l'incalzante abitudine di far collidere i due ambiti, producendo una deflagrazione di bugie che annichiliscono il metodo storico a vantaggio del sensazionalismo romanzesco, che presso i lettori meno avveduti diventa la storia "ufficiale".
Infatti quest'oggi vi narro con leggerezza e amenità del luogo fisico sul quale i Romani - per ordine di Publio Villio Tappulo, commissario ripartitore inviato nel 200 a.C. in Alto Sannio - scannarono tre capre nere per la gloria del console Gaio Aurelio Cotta: il vittimario, ovvero colui che materialmente abbatté le bestie per eviscerarle, si chiamava invece Pitracco (o Pietracco).
Fu proprio questi a condurre i tre animali sull'ara, l'altare sacrificale, quindi diede alle povere capre un colpo sul capo col malleus (martello) e, una volta iugulate, le uccise col culter (coltello). Estratti i visceri, venne disposto l'esame divinatorio da parte dell'aruspice, quindi preparata la porzione riservata agli dèi, offerta sulla medesima ara. Tale offerta venne accompagnata da un carme evocativo nel quale il sacerdote chiamò a sé la dea Cerere, domina di quelle terre abbrutite, per condurla definitivamente nel pantheum, il grande consesso delle divinità antropomorfe romane, defraudando il nemico della protezione divina e lasciandolo così indifeso, deriso, ramingo. L'intero magmentum (sacrificio supplementare) venne celebrato nel luogo più evocativo dell'intera regione in chiave antisannita, ossia la sorgente del Verrino, quello stesso fiume lungo il quale l'omonimo prefetto del Pretorio imperiale aveva compiuto, quasi un secolo prima, una strage di disertori dell'esercito romano, e a ricordo della quale aveva lasciato un'epigrafe: a poterla ritrovare quella pietra... che scoperta eccezionale sarebbe!
Resta il fatto che il nome dell'Ara Petracca non può certo riferirsi alla dimensione del prato, poiché un'ara equivale a soli 100 mq. e, a ben vedere, quel lotto è vistosamente più esteso, fino a 25 volte più grande. Nondimeno il rito apotropaico appena richiamato dovette riecheggiare a lungo in tutta la valle, tant'è che nei secoli successivi, nel riferirsi a quella zona, si era ancora soliti dire: «Lì, dove sta il sangue delle capre di Cotta».
E così sorse da quel sangue, a monte della Fons Cæmentorum, il castrum di Capracotta, la terra dei nostri padri.
Francesco Mendozzi