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L'ascensione al Monte Campo


Monte Campo Capracotta
La croce di Monte Campo e il romanzo di Antonio De Simone.

Il territorio di Capracotta, nei suoi 42,38 kmq. interamente montuoso, è percorso da una rete di stradicciole, viuzze, sentieri di campagna, piccoli tratturi che conducono a poggi, alture, balconate, cime di monti, da dove il panorama che si gode infonde nell'animo un senso di liberazione, d'appagamento, di sublimazione.

La prima balconata, o punto d'osservazione, è situata nel centro del paese su alcuni rupi formate da strati sovrapposti di elementi calcarei, che scendono a strapiombo per centinaia di metri verso la Valle del Sangro. È il belvedere, a lato della Chiesa matrice, da dove lo sguardo spazia per la valle e si eleva poi per ammirare le cime più alte dei monti abruzzesi e molisani: la Maiella, spoglia, arida e pietrosa; i Monti della Meta; le Mainarde, che sembrano tagliate orizzontalmente da una linea che segna il limite della vegetazione di alta quota; il Monte Capraro, coperto di faggi, alla cui sommità si trovano i resti di un antico monastero che ospitò quel frate Ruele, autore della Regola di Monte Capraro datata 1171, e si ammira il monte Cavallerizza che nasconde tra i suoi boschi le Mura Ciclopiche di una fortezza sannitica del V secolo a.C.. Dalla stessa cima di monte si può ammirare la Valle dell'Alto Volturno, il Matese, la Valle del Trigno in cui confluisce quella del Verrino, dominata quest'ultima da due centri d'importanza archeologica: Pietrabbondante, la Bovianum vetus con l'anfiteatro italico e i templi pagani, ed Agnone, l'osca Akudunniad, ultimo baluardo contro la potenza romana, distrutta nella terza guerra sannitica.

Ma l'osservatorio più prestigioso e più frequentato rimane quello di Monte Campo, una montagna dall'aspetto di un grosso felino accovacciato, ove svetta un'imponente croce metallica costruita agli inizi del '900 quale testimonianza di fede religiosa. Osservatorio più prestigioso, poiché dalla sua cima si scopre il territorio delle sette province circostanti e, nei giorni più sereni, anche «il tremolar della marina adriatica», e non c'è capracottese che almeno una volta in vita sua non abbia fatto l'ascensione al Monte Campo per assistere al meraviglioso sorgere del sole.

All'età di sette anni l'ho fatta anch'io in compagnia di mio padre (Simona, mia sorella, troppo piccola per una simile avventura, era rimasta a casa). La giornata era bellissima, limpida, serena, una delle poche che, nel corso dell'anno, regalano una visione panoramica totale. Parcheggiata la macchina ai piedi della montagna, presso il minuscolo santuario di Santa Lucia, e, da una fonte zampillante tra le rocce attinta l'acqua per rinfrescarci nella fatica dell'ascesa, abbiamo iniziato ad inerpicarci per un viottolo tortuoso. Ero felice. A mano a mano che salivamo, il panorama si allargava; il paese ai nostri piedi ci appariva sdraiato sui tre colli o speroni rocciosi che costituiscono il suo supporto. Vedevamo la Chiesa matrice dominare il paese e il campanile massiccio sul colle centrale; ai suoi piedi distinguevamo, tra un gruppo di case, anche la nostra, piccola, bianca, dal tetto rosso. Mio padre me l’indicava e mi raccontava che anche lui, all'età di sette anni, fece la prima volta «la salita al Monte Campo» in compagnia di suo nonno e di tanta altra gente nel giorno tradizionale della gita paesana, che cadeva il 10 settembre a conclusione delle feste patronali.

Superato non senza fatica il tratto più scosceso, ecco aprirsi al nostro sguardo «la piana del monte», apparentemente in leggera salita, ma «fastidiosa per il cammino delle persone e pericolosissima ai grossi quadrupedi, per una sequela di sporgenze di duri massi pietrosi, intersecata da solchi e da vuoti disuguali, in direzione del declivio, nei quali si rischia di aver serrati i piedi o rompersi le gambe».

Prima di affrontarla abbiamo sostato per riprendere fiato e poi di buona lena su per quel percorso lungo, fastidioso, interminabile, culminante sulla cima, da dove una possente croce metallica, con i suoi due bracci legati al suolo da tiranti di ferro, c’indicava la meta da raggiungere. Ho saltellato finché ho potuto su quelle sporgenze, poi sono crollata; non conveniva più tornare indietro ad un passo dalla cima: mio padre, costretto a prendermi sulle spalle, mi ha portato fin sulla vetta, guadagnandosi una bella sudata. Nel frattempo altri gruppi di ragazzi, tra i quali un mio cuginetto di nome Loreto, ci hanno raggiunto, ed insieme, abbiamo percorso l’ultimo tratto, fino a toccare il vertice, a quota 1.746 metri.

All'orizzonte brillava già una sottile striscia di colore; le stelle nel cielo ancora non erano scomparse del tutto. A poco a poco il sole, innalzandosi dalla parte orientale, gradatamente inondava di luce il territorio delle sette province. Che visione stupenda! Ci sembrava di non trovarci più con i piedi sulla terra, ma di essere sospesi nel cielo con il corpo più leggero! Dopo aver ammirato per alcuni minuti il panorama straordinario, fummo costretti a ripararci dal vento freddo dietro alcune ròcchie (così i Capracottesi chiamano i cespugli) e a rifocillarci. Lo spazio era lì in tutta la sua sovrumana bellezza, goduto da quell'osservatorio ideale del Monte Campo; ma, mentre ammiravo il panorama, tornai con la mente all'Ascensione del Monte Ventoso del Petrarca, il quale, con la complicità di S. Agostino, passò dall'ammirazione dei panorami stupendi della Provenza «agli scenari dell'anima» ben più interessanti e profondi, passò alla scoperta dell'intimo dell'uomo, e dicevo tra me: se da questo stesso osservatorio, oltre ad ammirare il panorama attuale, fosse possibile anche considerare «gli scenari della storia», andando a ritroso negli anni, penetrare «la siepe del tempo», squarciare il velo dei secoli, risalire alle generazioni trascorse, in modo da poter osservare da quest'angolo suggestivo la vita che si svolse nei secoli passati, allora sì che lo spettacolo si presenterebbe completo e sarebbe una sequenza cinematografica fascinosa della vita di quei popoli che si sono avvicendati in questa regione mitica del centro-Italia!

È quello che ha tentato di fare l'autore del romanzo storico "Il Sannita", cercando di rimuovere la polvere dei secoli, rompendo il silenzio di duemila e quattrocento anni, di ricostruire su questi stessi luoghi - reperti archeologici e testimonianze letterarie lo hanno autorizzato - la straordinaria vicenda dei Sanniti, (nella saga della famiglia Ponzio delle Guastre), il loro ideale di vita associata, le battaglie per conseguirlo e, purtroppo, il loro tragico fallimento. A chi mai potrebbe interessare una storia così lontana anche se affascinante, i cui protagonisti Romani e Sanniti, Italici ed Italioti, Etruschi e Celti sono stati, già da lungo tempo, assorbiti dal fiume della storia? Se si considera, però, che il IV secolo a.C. fu decisivo per la nostra penisola, in quanto due popoli giovani se ne contendevano il predominio: i Romani con l'egemonia imperialistica, i Sanniti con l'espansione federale; se si considera che in quella lotta intervennero, direttamente, personaggi di alto valore militare, come l'eroe delle Forche Caudine, Gavio Ponzio, figlio di Erennio; Decio Mure con Gellio Egnazio, duci coraggiosi di opposti schieramenti, caduti entrambi a Sentino nella battaglia campale delle nazioni, e intervennero altresì personaggi d'indiscusso livello culturale e filosofico, come Archita di Taranto, (il Leonardo dell'antichità); Erennio Ponzio, l'intellettuale, padre di Gavio; Dione di Siracusa, discepolo devoto di Platone, i quali, discutendo con Platone stesso a Taranto, e sotto la sua supervisione, immaginarono diversi sistemi politici, tra cui quello del "federalismo", da realizzare per le popolazioni del nostro territorio, non è fuori luogo, allora, ricordare fatti e personaggi, remoti nella storia, le cui proposte politiche, anche se non furono realizzate ai loro tempi, potrebbero considerarsi di viva attualità e costituire perennemente la "luce ideale" di ogni vita associata.

L'autore propone, quindi, alla nostra attenzione, fatti, personaggi ed ideali, sotto forma di romanzo misto di storia ed invenzione, in cui il protagonista, il Sannita, rivive ed assimila la cultura della Magna Grecia nei suoi aspetti storici, filosofici, letterari, politici, scientifici e di costume, diventando una "figura" notevole di quell'epoca, purtroppo in seguito dimenticata, ma che ora merita almeno un piccolissimo "spazio" ed un tenue "ricordo" nella storia del nostro paese.

Il romanzo è preceduto da un prologo di carattere storico, in cui sono ricordate le ipotesi di vari studiosi intorno alle origini delle popolazioni appenniniche; ed ha un'appendice conclusiva, dal titolo "La Tavola osca di Capracotta", ove si parla del ritrovamento di un prezioso reperto archeologico e del consistente materiale linguistico che contiene, sufficiente ad un'organica interpretazione della lingua osca, utilizzata peraltro dall'autore stesso nella ricostruzione dell'avventurosa storia dei Sanniti e del suo protagonista, Erennio Ponzio. Il lavoro, quindi, può appagare la curiosità del lettore non solo dal punto di vista archeologico, ma anche storico, linguistico ed ideologico. Allora l'invito caldo e pressante: venite a Capracotta, l'osservatorio ideale, per ammirare e rivivere nel presente una meravigliosa avventura del nostro glorioso passato.


Raffaella De Simone e Simona De Simone

 

Fonte: R. De Simone e S. De Simone, L'ascensione al Monte Campo, in «Voria», I:2, Capracotta, ottobre 2007.

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