La preminenza della zootecnia su ogni altra attività deriva a Capracotta dalla connessione con il clima, con la pedologia, con l'antropologia, con la scarsità di colture foraggere. In detto comune a m. 1.426 sul livello del mare forse gli animali erano transumanti prima ancora che sorgesse la pastorizia; nell'apprezzo del Commissario Fiscale del 1671 si legge che «li abitanti sono di ottima salute... la maggior parte dei quali attendono al governo delle pecore, industria propria del paese; il suo territorio consiste la maggior parte in pascoli..., li animali ammontano al numero di 30.000, le donne attendono al filar la lana». Si vive in detta terra a catasto. I fuochi da 183 nel 1671 passano a 205 nel 1737, mentre risultano 284 nell'onciario del 1743. Anche lo Squarciafoglio dell'onciario ribadisce che «li terreni lavorativi sì per essere infertili, altresì per l'orridezza de' luoghi aspri, si lavorano rari e per la sterilità del luogo vengono seminati lo spazio di anni cinque tre volte, cioè un anno pieno, l'altro vacante, ed anni tre necessari al riposo, che fanno la somma di anni otto». Nelle rivele del 1741 risulta un'enorme concentrazione del terreno per lo più feudale nelle mani del Duca Giuseppe Capece Piscicelli, per un totale di tomoli 7.344 esclusa la parte rupestre non censita; dal possesso il duca ricava tomoli 500 di grano e ducati 1.500 per vendita di erbaggi.
Di contro tutto l'agro demaniale del Comune misura tomoli 7.209; mentre i numerosi enti ecclesiastici posseggono complessivamente tomolo 1.068.
È evidente che in Capracotta persista a metà del secolo XVIII un sistema di proprietà feudale che altrove è in fase di avanzato superamento. Forse la persistenza di vecchie strutture devesi alla poca appetibilità della popolazione per terreni infruttuosi, alla scarsa vocazione degli abitanti per l'agricoltura, per cui il Tavolario Pietro Schioppa evidenzia la vasta estensione dei terreni ducali «niente però proporzionati alle braccia che devono coltivarli, perché quei... capaci alla coltivazione delle campagne sono tutti addetti alla pastorizia, che li mantiene per buona parte dell'anno lontani dal proprio paese»; tuttavia la relazione conclude che i terreni adatti alle colture rendono qualcosa soltanto con maggese e che essi non sono suscettibili di miglioramento; siamo nella zona molisana ove il Longano fissa la resa del raccolto a tre o quattro volte la semina.
Liborio Casilli
Fonte: L. Casilli, Aspetti socio-economici della transumanza nel secolo XVIII, in E. Narciso, Illuminismo meridionale e comunità locali, Guida, Napoli 1989.