Non mi stancherò mai di ripetere che la transumanza non era una salutare passeggiata, non era qualcosa di cui andare fieri, non era un tuffo nella natura e nella storia, non era un'avvincente gita al séguito di animali domestici: la transumanza era una maledizione. Pastori, massari, carbonai, bastai e vetturali lasciavano le balze montane in preda all'angoscia e al risentimento. A settembre essi abbandonavano mogli incinte, neonati e genitori anziani senza alcuna certezza di rivederli a maggio. Sapevano che i loro cari avrebbero vissuto senza il pater familias, in case anguste sommerse dalla neve. È altrettanto vero che la transumanza ha inconsapevolmente creato scambio culturale, commercio e interdipendenza economica, ibridazione e comunicazione. Ma chi oggi la esalta è quantomeno uno sciocco.
Nipote di un umilissimo pastore transumante, rammento i racconti di mio nonno Giuseppe su quel viaggio che ogni anno si ripeteva con drammatica precisione. Né dimentico gli improperi di mia nonna Elena, per l'estrema lontananza dal marito, costretta a vivere in un tugurio della Terra Vecchia. Per me, dunque, la transumanza è sì un valore, ma ringrazio Dio che sia sparita dalla faccia della terra, facendo spazio agli agi della modernità.
A dispetto di quell'interpretazione trionfalistica e pseudonaturalistica di chi la transumanza non l'ha vissuta in prima persona - nemmeno per sentito dire - la storia transumante è invece piena di avvenimenti spiacevoli, quando non compiutamente tragici. È il caso di Francesco Del Castello, che ho attinto da una relazione presentata dal procuratore cav. Giuseppe Calvitti all'assemblea generale del Tribunale di Lucera il 7 gennaio 1890 e che ora vi propongo a conferma di quanto postulato.
È il 1° febbraio 1889 e il settantenne Francesco Del Castello, originario di Capracotta e costretto a recarsi in Puglia in qualità di vetturale - ovvero colui che trasportava legna su carretti e bestie da soma - si trova in una taverna di Volturino, piccolo comune in provincia di Foggia. Se ne sta al tavolo a contare il suo gruzzoletto di 20 lire (circa 84 euro attuali) senza accorgersi di chi lo sta spiando con insistenza: in quella osteria c'è infatti uno sciagurato, tale Antonio Bredice, contadino di S. Marco la Catola. Dopo essersi rifocillato, l'anziano Del Castello si mette in cammino per Volturara Appula (a poco più di 10 km. di distanza), dato che egli «veniva in queste contrade a trarre gli onesti mezzi della sussistenza sua e della sua famiglia col lavoro, mercè il trasporto dei carboni». Il mattino seguente il vetturale capracottese viene ritrovato «cadavere sul pubblico stradale, spaccato il cranio con colpi di scure e depredato». Il Bredice lo aveva infatti seguito e, al momento opportuno, aveva colpito senza pietà il vecchio trasportatore. Pochissimi giorni dopo, il malvivente uccide con identiche modalità un altro uomo, Vincenzo Scibinico, depredando anch'egli.
Di lì a poco le forze dell'ordine del circondario di Lucera riescono fortunatamente ad arrestare il malfattore. Al momento del processo, il cav. Calvitti affermò che «chi avesse assistito al pubblico dibattimento, che seguì in Corte d'Assise, sarebbe rimasto terrorizzato a vedere il contegno glaciale di quest'uomo durante la discussione, ed il cinismo ributtante, col quale accolse il verdetto capitale dei giurati». Antonio Bredice fu infatti condannato all'ergastolo visto che la pena di morte non veniva più eseguita da una decina di anni, in vista dell'abolizione del 1° gennaio 1890.
Francesco Del Castello, probabilmente, venne invece sepolto in quelle terre ostili. E lì riposa.
Francesco Mendozzi
Bibliografia di riferimento:
G. Calvitti, Relazione statistica dei lavori compiuti nel Circondario del Tribunale Civile e Penale di Lucera nell'anno 1889, Lepore, Lucera 1890;
F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016;
E. Petrocelli, La civiltà della transumanza. Storia, cultura e valorizzazione dei tratturi e del mondo pastorale in Abruzzo, Molise, Puglia, Campania e Basilicata, Iannone, Isernia 1999.