– Mó comincia il tritume.
Così diceva sor Paolo nelle sere di festa, quando i giovanotti fidanzati facevano a gara a comprare i nocellini americani da offrire alle sposine e parenti, tanto da rendere la strada piena di bucce.
– Gnà ara passà auoànne san Giuvieànne che tutta ŝta nève?
Come deve passare al 24 giugno san Giovanni? Così diceva ingenuamente Valentino, altro domestico di don Sebastiano Conti, quando in febbraio vidde tutta quella neve e non si rendeva conto che a giugno si sarebbe da molto tempo sciolta.
– Se vè na caraŝtia ru prìme a murì ejéra èsse tu...
– Ma se vè na gràscia ru prìm'a magnieà aja èsse ì!
Mast'Orazio al bravo nipote Mario: se viene una carestia il primo a morire devi essere tu e ciò perché Mario, pezzo di giovane, mangiava parecchio. Mario rispose: ma se viene un'abbondanza il primo a mangiare debbo essere io. Il poverino fu fatto prigioniero nella guerra 1915-18 e raccontava che la miseria la provò ma che rimediò facendo il bovaro presso una cascina (e lui era sarto).
– Uaglió, nen scupà sa farina che ŝta 'n dèrra ca se fà nu poche de paŝta córta e ze pòrta a Crapacòtta.
Diceva il pastaio al garzone: ragazzo, non buttare la farina che sta sotto i piedi, perché ci facciamo un poco di pasta corta e si porta a Capracotta. Così raccontava Luiggiotto con tutti i commenti.
– Èsse ŝtieà tu, e mógliete mó ze mòre?
Lì stai tu, e tua moglie sta morendo (ma non era vero). Così mast'Orazio tolse dall'imbarazzo un suo parente che stava per avere tante botte fra amici.
– Sò fissarìe, cumbà.
Così disse Vincenzo Campana al compare Amatonicola del Circolo quando vide che i tanti bicchieri rotti per terra non erano i suoi, ma del compare, durante la gestione comune del circolo stesso.
– Mànghe se fósse zùccare.
Nemmeno se fosse zucchero. Così rispose Giovanni Ianiro quando gli offrirono gli stuzzicadenti dopo il pranzo.
– Auóje nen fatìje?
Oggi non lavori? Non lavoro perché fa festa pure Peppino Ciccalone, che era un grande lavoratore.
– Ru cuandóne gruósse è ammàscia appàr'alla còccia de quìre!
Il masso grosso è ovatta in confronto alla testa di quello. Così diceva Fafitto in riferimento a un suo amico o parente.
– Tu vuó mamma?
Così diceva il padre pastore al figlioletto di nove anni che era in Puglia con le pecore e che invocava la mamma lasciata per la prima volta al paese.
– Pecché Denatùccio è jùte a quìre spusalìzie?
– È pecché ca h... hh... hhh... hh... h...
Sempre Tatuccio: perché Donatuccio è andato a quel matrimonio? Qui non è facile descrivere con le parole le aspirazione delle acca...
– Miése o sàne? Ghieànghe o rùsce?
Mezzo o intero? Bianco o rosso? Così Vincenzo ripeteva alla mamma in due volte per accertarsi meglio se dovesse comprare il vino bianco o rosso e che la povera mamma aveva raccomandato al figlio di comprare di nascosto non per un vizio, ma soltanto perché ci si poteva permettere di berlo in occasione di festa. Infatti, le povere donnette potevano bere solo quando vi erano tutti gli uomini in casa. Quando poi questi non c'erano, alzando il bicchiere dicevano: «Alla salute degli uomini nostri!» (che erano tutti in Puglia).
– Tu cùnde còme la boccalà ru juórne de Pasca.
Tu vali come il baccalà il giorno di Pasqua. Vale a dire che non conti nulla, in quanto in quella festa non si mangia altro che carne ecc.
– Ì cónde còme l'ultime buttóne de la vrachétta.
Altrettanto non valgo nulla, in quanto se l'ultimo bottone dell'apertura davanti al pantalone resta abbottonato, il pantalone non scende...
– Nen n'àja fa niénde!
S'intendeva dire che non doveva fare alcun bisogno. Così disse Tatuccio allo sciame di mosconi che ronzolavano nei pressi di una cava di pietra sotto l'attuale villa comunale, adibita a gabinetto pubblico all'aperto (quando non vi erano le fogne), mentre lui volle solo chinarsi per rimuovere alcune lastre di pietra.
Gregorio Giuliano