Per quanto mi riguarda, l'unica consolazione nel tornare a farmi prendere a sputi in faccia dal vento è che posso tornare ad addentare la salsiccia con cui avevo lasciato un conto aperto all'ingresso in stazione. Per il resto la marcia è una messa da morto.
Procediamo a oriente, imbucandoci fra le colline di una terra di mezzo che si stacca dalla linea di crinale fra Abruzzo e Molise. Una terra di saliscendi privi di precisa metrica, in cui i rovi hanno mangiato da tempo le antiche vestigia agricole.
L'acqua balla impazzita dappertutto. Sopra, ma soprattutto sotto. Nelle canaline di scolo giù dalla massicciata, nei torrenti che si trasformano in Niagara tagliando campi ormai incolti con una potenza innaturale. È acqua che scende selvatica, alla boia d'un Giuda, menefreghista e strafottente, spinta a calci da un Poseidone appenninico che se la sta spassando alle nostre spalle. Rimbalza sulle traversine e infilza le scarpe come fossero puntaspilli, s'insinua misteriosamente nei calcagni, superando lo sbarramento dell'orlo dei pantaloni. Ogni tanto qualche goccia riesco a sentirla persino lungo la linea della spina dorsale, fino alle mutande.
Procedo praticamente ad occhi chiusi, ma ad un certo punto Stefano mi scuote. Siamo arrivati a una stazione. O meglio, a quella che fu una stazione. "Montalto di Rionero Sannitico", recita l'insegna scrostata sul muro, una frazione di neppure duecento abitanti, molti chilometri più a monte. Ci fermiamo per un paio di foto d'ordinanza, facendoci largo fra le robinie che avvolgono il piccolo marciapiede. Dagli appunti scritti prima di partire in un notes ormai zuppo, ricavo che la stazione fu realizzata nel 1960, alla riapertura della linea dopo i disastri bellici e soppressa nel 2002. Anche questa, come altre lungo la linea, ebbe una vocazione prettamente agricola, dal momento che non esiste alcuna apparente via d'accesso all'edificio.
Camminiamo contando i centimetri che ci separano dalla galleria di Monte Pagano, la più lunga di tutta la linea, con i suoi oltre tre chilometri. Fino a questa mattina, tunnel sinistro e temuto, ma poi riparo quanto mai sospirato.
A neppure un chilometro dalla galleria, la beffa. Sul versante opposto della Val di Sangro le nuvole, in due e due quattro, scoperchiano Castello, improvvisamente illuminato a giorno da un sole vendicatore. Lo stesso sole che in breve viene a fare giustizia con una folgore anche sopra le nostre teste bagnate, risvegliando in un attimo la natura attorno come un mantra. Anche il cuculo ritorna a cantare.
Nella pancia della montagna rimbalzano sulle pareti della galleria le nostre chiacchiere di apprendisti padri, su figli e social network. Ma ad ogni minuto ci giriamo per una veloce occhiata alla sfera di luce dell'imbocco, che mano a mano si fa sempre più minuscola, come terra che scompare all'orizzonte. Davanti a noi l'oceano nero che separa Abruzzo e Molise. Sopra, le mani invisibili che dividono la acque fra Sangro e Volturno, cioè fra Adriatico e Tirreno. E che devono avere un gran da fare in questo momento, almeno a sentire lo scroscio tutto attorno che sale con la potenza di una dinamo. Più avanti, in una nicchia ricavata fra le pareti, apriamo un'imposta che ci spalanca un gorgo primordiale, dove acqua scartata con rabbia dai numi del monte, precipita giù per centinaia di metri e mulinella indemoniata sotto i nostri occhi, prima di farsi inghiottire nuovamente dalla tenebra.
Quando probabilmente raggiungiamo il centro della galleria, qualcuno abbassa il volume. Tutto torna a farsi d'ovatta, così da sentire la flebile nenia delle nostre suole sulle pietre. Il calcare sedimentato sulle volte disegna profili umani e mostri mitologici che ci divertiamo a interpretare, come nuvole nei cieli di marzo. Ritorniamo per venti minuti bambini, affascinati da streghe alate, tartarughe cammellate, polli famelici ed elefanti sciatori. Quello che invece è senz'altro vero sono le due lucine intermittenti che in un orizzonte indefinito davanti a noi si accendono e spengono irregolari. Minuscole. Ma nel buio più assoluto e sconfinato sono sufficienti a farci tremare le gambe. Che cazzo c'è là in fondo?
Stefano si avventura in un timido «c'è nessuno?» ma tutto tace.
Avanziamo con circospezione assoluta, certi che se fossimo stati soli qua sotto ce la saremmo già fatta addosso. Le luci scompaiono per un po', poi eccole di nuovo. Più ci avviciniamo, più sembrano basse, quasi sui binari. Ancora una cinquantina di passi e ne siamo certi: sono sui binari.
Appena il fascio di luce delle nostre torce arriva a lambire l'oggetto non identificato, il nostro UFO di terra esce allo scoperto. Con uno squittio e uno zampettare veloce sguscia dal cono di luce e si mette a correre leggero verso di noi. Poi, prima d'incrociare i nostri passi, scarta improvviso e s'infila dentro a una fessura del camminamento laterale.
La montagna questa volta ha, letteralmente, partorito il topolino.
E noi, finalmente, vediamo la luce del Molise.
L'umido di cui si è impregnata l'aria anche da questa parte del crinale esalta l'odore selvatico dei boschi. È l'odore con cui la terra da tartufo che stiamo calpestando vuole farsi riconoscere. Tartufo Bianco per l'esattezza, che proprio a San Pietro ha una sua Betlemme.
La stazione San Pietro Avellana-Capracotta è davvero a un tiro di schioppo dall'uscita della galleria. Quando ci arriviamo, un cielo blu petrolio, reso fosforescente dal sole accecante, ci fa capire che il peggio, meteorologicamente parlando, potrebbe ancora venire. Ma intanto eleva a potenza ogni colore attorno a noi, come quello dell'intonaco della stazione, che in altri giorni sarebbe stato forse uno scialbo color salmone, ma che oggi esce dall'anonimato con un arancio intenso. Un omaggio della natura a una stazione fra le più gloriose della linea, da anni, come la stragrande maggioranza, "impresenziata". Gloriosa per tanti motivi. Uno è proprio sotto la scorza di calce. L'edificio infatti fu raso al suolo dalla furia rabbiosa dell'esercito nazista nell'ottobre 1943, che con mine ed erpice, devastò buona parte del tratto molisano della ferrovia, piazzata proprio a cavallo della linea Gustav.
Quando alla fine degli anni Cinquanta, la stazione venne ricostruita, lo si fece utilizzando i mattoni sfornati della Fornace Santilli, il laterificio che aveva sede proprio lì accanto, distrutto anch'esso dalla ferocia tedesca e da poco riattivato. La rinascita della stazione (il tratto ferroviario Carovilli-Castel di Sangro fu inaugurato dopo la ricostruzione il 9 novembre 1960) si andava così ad incrociare con quella della fornace, da cui uscivano mattoni con inciso il nome del paese: San Pietro Avellana. Mattoni che portavano un pezzo di Molise in tutta Italia proprio grazie alla ferrovia, visto che la fabbrica era collegata alla linea con un binario dedicato. Ai mattoni del posto si aggiunsero le mani del posto: quelle dei tanti operai sanpietresi che lavorarono all'opera. E così quella ricostruzione, che contribuì a rompere un isolamento ferroviario durato diciassette anni, fu l'edificazione di una specie di tempio laico. Un tempio alla libertà dell'uomo e alla conoscenza. Un tempio alla Grande Rete che, nell'Italia del boom economico, non cominciava con www, ma sapeva di nafta e ferro. Una costruzione mitica nella memoria del paese, che inevitabilmente si porta dietro leggende da cantastorie. Come quella dell'ingegnere delle Ferrovie, capo cantiere, talmente preciso da voler controllare tutte le otto facciate di ogni singolo mattone, perché il tempio non ammetteva imperfezioni.
Mentre Stefano scatta qualche foto, mi stravacco sulla panchina sotto la pensilina del marciapiede.
Riccardo Finelli
Fonte: R. Finelli, Coi binari fra le nuvole. Cronache dalla Transiberiana d'Italia, Neo, Castel di Sangro 2012.