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Nella campagna dell'uomo estinto


Paolo Rumiz
Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz.

Una trattoria con pergola e vino gelato dei colli. Intorno zanzare, ciclisti in fuga, rombo di camion verso la piana operosa. Accanto, quattro avventori che battono carte a "conchino" e sembra parlino uzbeco. Sullo sfondo, Castell'Arquato, turrito guardiano della Val d'Arda. L'auto non va bene, tossisce, fatica a ripartire, ha le batterie scariche. Uno degli indigeni, in canottiera regolamentare, si tuffa felice in quel motore arcano, armeggia, spiega che la dinamo non ricarica. Diavolo, chi si ricordava della dinamo. È un marchingegno estinto, oggi c'è l'alternatore. Un magnifico nome di una volta. Contiene un mondo perduto, muscolare, privo di carenature e microchip. Evoca i corridori di Olimpia, il fascio littorio e le squadre di calcio ex comuniste di Kiev e Zagabria, la meccanica del ferro. La corazzata Yamamoto, Marinetti, le ardite campate del viadotti, Nowa Huta e il sol dell'avvenir.

Sul pianale posteriore ho la valigia con i ricambi. Albero motore, differenziale, frizioni, pulegge, chiavi inglesi, guarnizioni. E anche la dinamo, ovviamente d'epoca. Arriva il meccanico, mi racconta la storia della sua vita, dice che in mezza giornata è fatta. Penso: mezza giornata, se continuo così arrivo in Calabria fra un anno. Intanto, alla spicciolata, affluisce mezzo paese a godersi la scena. Sono già le undici, mi prende lo sconforto, non sono ancora entrato nel fatalismo del nomade. Non ho ancora capito che le soste forzate, ignote ai contemporanei, sono la benedizione del viaggiatore.

Il topo meccanico, di nuovo in piena forma, risale la Val d'Arda alla ricerca dell'Arca perduta. L'Appennino è una fattoria degli animali, lo capisci dai nomi di luogo. Capracotta, passo del Cifalco, colle dell'Agnello, Cantalupo, Orsomarso, Caniparola, Gole della Gatta, Vaccarizza, perfino Strangolagalli. Ho davanti una penisola di montagne che raglia, grugnisce, abbaia, ulula, bela, fa chicchirichì. L'immaginario si popola di cori animali, genera araldiche sovrapposizioni di mammiferi e uccelli come il mostro dei musicanti di Brema.

"Zwanzig Personen / in Automobil / das ist zuviel / das ist zuviel". La strada verso Bardi è così solitaria che per vincere l'angoscia mi sgolo con una vecchia canzone triestina in pseudo-tedesco. Tempo mazurca, allegro con brio. "In eine Svolten / Auto se volten / zwanzig Personen / sind alle kaputt". Ah, magari guidassi un'auto con venti persone, qui la notte si avvicina con un buio pieno di balene che ti entra nell'anima, e la Topo, piccolina, con le sue lucette, è solo un "mouse" che esplora l'immensità. In Africa, anche in pieno deserto, c'è sempre qualcuno sulla strada. Qui no. La vita è altrove. L'uomo pare estinto come l'elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio incomparabilmente più ancestrale e arcano delle Alpi. Queste non sono montagne-bomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell'assemblea dei cacciatori, e qualcosa di balcanico nell'aria.

La notte m'inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda "Geppetto", un cuoco che gli somiglia mi accoglie così: "Benvenuto nel posto dove il mondo finisce". Sembra un sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un'accoglienza da re. "La gente scappa da qui e non sa cosa perde", spiega scodellando una pizza al pesto. "Io vengo dall'inferno romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più". Come la balena, sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio.


Paolo Rumiz

 

Fonte: P. Rumiz, Nella campagna dell'uomo estinto, in «La Repubblica», Roma, 2 agosto 2006.

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