I ricordi, sia belli che brutti, fanno parte della nostra storia, e da essi riscopriamo le nostre radici, ci fanno capire chi siamo, da dove veniamo. Non è vero che ci fanno perdere il senso del presente o del futuro.
Negli anni '70, nel pieno della contestazione giovanile, noi giovinastri, che appartenevamo a famiglie piene di speranze e cariche di sacrifici già pesantemente consumati per gli effetti della ricostruzione, cominciavamo ad avvertire i primi segnali di attrazione, invaghimento, di improvvise e di indescrivibili cotte verso il gentil sesso.
Si cercava in ogni modo di comunicare un prematuro e innocente ammiccamento giusto per far capire il proprio interessamento verso l'altra, sperando poi di portarla a ballare in qualche locale.
Generalmente gli avvinghiati balli della mattonella si svolgevano sotto una luce diffusa oppure nel buio pesto, proprio per superare quei tremendi momenti di imbarazzo, di pudore e di vergogna dovuti agli sguardi indiscreti degli astanti non accoppiati. Con il corpo fremente, le farfalle nello stomaco e il capo poggiato sulla spalla della compagna di turno, si andava alla ricerca di un improbabile bacio a sigillo di un possibile fidanzamento ma che, nella maggior parte delle circostanze, non sortiva l'effetto sperato.
Il problema principale stava però nel trovare un locale da utilizzare come sala da ballo; non sempre si riusciva nell'impresa e l'unica sala attiva era quella di Ze Mònache, ubicata nel rione di Sant'Antonio, nella quale non eravamo ben accetti per via della nostra minore età.
Uno dei tanti compagni di merenda del gruppo di sangiovannari - dal nome pittoresco "La Cricca" - era Alfonso Monaco, dotato di un forte carisma e di una convincente parlantina, nonché frate francescano a tutti gli effetti ma che, durante le vacanze estive, non avendo vestiti borghesi, andava in giro con la tonaca, il cordone bianco e la corona grande del Rosario.
Dietro le nostre incessanti pressioni riuscì a convincere i miei genitori, che lo ritenevano persona di specchiate e ineccepibili virtù, ad utilizzare come ambiente fraternizzante e socializzante un locale di mio nonno Domenico, residente stabilmente in un casolare di campagna di via Pescara 11. Il locale era adibito a magazzino e le pareti erano bianchissime perché, appena dopo la fine della guerra, era stato utilizzato come studio medico dal dott. Ermanno Santilli che l'aveva sanificato con la calce.
Durante l'estate del '69 tutto andò liscio come l'olio, senza contrattempi e con qualche saltuario sopralluogo da parte di mio padre che, tuttavia, era sereno nel trovare tutto in ordine e contento di aver dato la possibilità a noi giovani di divertirci e di ballare dopo aver contribuito a svolgere i necessari lavori per il sostentamento familiare, come il governo delle mucche.
Papà era confortato dal fatto che la bolletta elettrica, tutto sommato, non si discostasse molto dalle precedenti, anche se non ne capiva il motivo, visto che in prossimità della porta interna del locale erano posizionati su un grande tavolo, oltre al giradischi e agli altoparlanti appesi al muro, corredi elettrici e lampadine di vario genere, utilizzati sotto l'egida di Angelo Monaco Zazóne, studente di elettrotecnica.
Dopo aver salutato e festeggiato la fine dell'anno e fatto baldoria, giunse l'estate del 1970 e, con essa, nuove proposte e idee innovative da parte di alcuni che, forse per ataviche ossessioni, decisero di aggiungere un tocco di arte al locale. Con carboni e gessetti colorati abbellirono tutte le pareti con disegni allegorici e frasi figurate.
I balli presero tutt'altra piega rispetto a quelli dell'estate precedente, perché si svolgevano con nuove e collaudate ingegnosità: una lampadina centrale di color rosso a bassa luminosità, musica a palla per frastornare le coppie con le canzoni del tempo ("Emozioni", "Un'avventura", "E penso a te", "Piccolo grande amore" ecc.) e tutto l'occorrente per creare l'atmosfera, incluso lo spesso strato di fumo generato da chi, per mascherare la propria insicurezza, fumava a tutto spiano. Ricordo che il fumo di sigaretta seguiva le vibrazioni dell'aria, spinta dai coni degli altoparlanti.
Verso la fine di agosto accadde l'inaspettato. A mio padre venne la geniale idea di portare mia madre e nonna Giovannina a osservare i balli della nuova generazione, entrando di soppiatto dalla porta interna.
Non appena le due donne si affacciarono sulla porta socchiusa rimasero di sasso! A loro, che erano abituate a veder ballare i coetanei con quadriglie e mazurche alla luce del giorno, sembrò di trovarsi in un girone dell'inferno dantesco.
Dopo un attimo di smarrimento si ripresero e mia madre, con l'aiuto di nonna che le dava manforte, sulla scorta delle reminiscenze scolastiche e televisive de "I promessi sposi" e della "Divina Commedia", proferì, verso chi stava nei pressi della consolle, frasi alquanto deprecabili che non lasciarono adito a replica alcuna:
– Voi siete come i bravi e avete venduto l'anima a Pruto (Pluto)!
Mio padre, pensando anche al buon nome delle famiglie Di Tella-Di Nucci che non potevano e non dovevano métterse 'nmócca a ne pòpole, nel vedere il fumo stratificato e l'intreccio di fili elettrici che si dipartivano dall'unica lampadina centrale, stabilì in cuor suo che prima o poi sarebbe potuto scoppiare un incendio per qualche imprevedibile cortocircuito.
Di colpo, salendo le scale come una gazzella, si diresse verso il contatore elettrico, posto al primo piano all'interno di un piccolo vano circondato da pellicole fotografiche e Super 8 - pensando a chissà quali oscenità contenessero e che invece servivano per "ammorbidire" il contatore stesso -, senza tanti complimenti staccò il coperchio della valvola a tabacchiera, che era rovente, e lasciò tutti i ballerini al buio.
Si concluse così la nostra socializzazione e da quell'infausto giorno dell'estate '70 tornammo tutti a riveder, del cielo, le stelle!
Dopo oltre cinquant'anni osservo con più attenzione questi disegni simbolici, che nel tempo sono leggermente sbiaditi: sebbene sembrino infantili, hanno per me un grande valore affettivo, perché esprimono un passaggio fondamentale della nostra formazione umana.
L'unica considerazione che mi sento di fare è che in qualcuno di essi si notano dei sorrisi sardonici, come se in un baleno, noi comuni mortali, siamo passati dalla sospirata, incosciente e spensierata giovinezza all'attuale, indesiderata e preoccupata vecchiaia!
Questo racconto farà parte del libro autobiografico "C'era una volta Capracotta", che speriamo di vedere presto pubblicato.
Filippo Di Tella