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A Capracotta c'è una buona zootecnia


Pecore Capracotta
Allevatori capracottesi (foto: Lefra).

Chiariamolo subito: a Capracotta c'è una buona zootecnia, senza trascurare la ricerca di nuove opportunità di miglioramento e di esprimere solidarietà a favore di coloro che esercitano, a cielo aperto, uno dei lavori più duri. Queste sono le motivazioni che mi spingono a scrivere le seguenti riflessioni.

Partendo da lontano, mettiamo in fila i fatti.

Il Censimento Generale dell'agricoltura dell'anno 1961 registrò la seguente superficie agricola:



Nel periodo compreso tra l'anno 1945 - fine della Seconda guerra mondiale ed inizio della ricostruzione del paese - e l'anno 1963, la consistenza del bestiame fu la seguente:



La media aritmetica dei valori sopra esposti, per il periodo considerato 1945-1959, dà la seguente consistenza di animali: 191 capre; 60 buoi; 308 vacche; 57 manze; 88 cavalle; 65 cavalli; 57 muli; 103 asini; 1.578 pecore. La popolazione anagrafica dell'anno 1961 fu di 3.201 persone.

I numeri sopra esposti mettono in evidenza una zootecnia piuttosto ricca di animali sia per la produzione del latte e della carne che per il lavoro agricolo e boschivo. Pur tuttavia la stessa aveva dei grossi limiti e punti di debolezza: bassi profitti e ritmi di lavoro elevati; bassa produttività degli animali; elevata intensità umana sul territorio agricolo; scarse disponibilità finanziarie; strutture aziendali non adeguate e condizioni igienico-sanitarie scadenti; elevato frazionamento della proprietà terriera, con pezzi di terreni coltivati, l'uno distante dagli altri e sparsi in tutto il territorio comunale; poche prospettive di crescita economica e di miglioramento di vita per i giovani. Per ultimo, la voce delle donne, tenue ma costante, per uscire dalla sottomissione della suocera, che spesso governava tutta la famiglia.

Dal mese di gennaio dell'anno 1953 a quello di dicembre del 1963, 1.294 persone abbandonarono il paese. Di esse migrarono in Germania 273 persone. Il censimento della popolazione dell'anno 1971 registrò 2.163 persone, meno del 32,4%; quello dell'anno 1981, 1.612, meno del 25,5%. Queste riduzioni significarono che metà della popolazione abbandonò il paese in un periodo di anni venti. Le stalle si svuotarono e l'agricoltura di sussistenza smise di esistere. Gli addetti alla povera agricoltura di montagna, per l'impossibilità di trovare altri sbocchi in loco, trovarono aperta la strada dell'emigrazione. I redditi della popolazione di montagna erano divenuti così distanti da quelli conseguibili altrove e gli sforzi per un loro incremento sul posto, con qualunque mezzo si fosse impiegato, davano così modesti risultati, da non costituire un limite allo stesso esodo.

Le produzioni foraggere delle aziende poste nel territorio montano sono organizzate su due livelli: il primo è quello dei prati e prato-pascoli artificiali e falciati per la produzione delle scorte alimentari da utilizzare durante il periodo invernale; il secondo è quello dei pascoli naturali utilizzati nel periodo estivo. A essi vanno associati gli ex seminativi, ormai abbandonati e privi di qualsiasi cura agronomica che stanno evolvendosi, con lentezza, verso una vegetazione erbacea spontanea e naturale, spesso non di buona qualità zootecnica. Se e quanto siano integrati e razionalmente raccordati i due sistemi fra di loro, non è possibile affermarlo con la dovuta attendibilità; ma una pianificazione realistica delle utilizzazione della produzione foraggera montana deve necessariamente tener conto di queste due realtà, delle difficoltà e delle possibilità che esse creano. È anche evidente che il rapporto fra terreni meccanizzabili e quelli pascolabili dà la misura del grado di intensità produttiva dell'allevamento.

Nell'ambito dei su esposti limiti, il problema principale, quindi, consiste nel trovare il punto di incontro fra le caratteristiche (quantità e qualità) della produzione foraggera e le esigenze alimentari degli animali.

Il sistema pascolo-animali è alquanto complesso nella sua gestione e non va affatto banalizzato. Cambiamenti climatici permettendo, l'analisi dell'andamento della crescita-produzione dell'erba presenta:

  • una fase iniziale di massima capacità (maggio-giugno );

  • una fase intermedia con capacità relativamente costante, ma ad un livello di produzione molto più basso (luglio-agosto);

  • una fase finale con piccola ripresa (settembre) e con capacità decrescente (ottobre e novembre) sino ad annullarsi.

Le esigenze alimentari degli animali invece sono piuttosto costanti o addirittura rettilinee. Inoltre la ricerca dell'equilibrio fra gli animali che si alimentano e la vegetazione che cresce non può limitarsi soltanto agli aspetti quantitativi. Vi è infatti un equilibrio ancora più difficile da valutare e raggiungere, di natura qualitativa, che riguarda i rapporti fra la fisiologia degli animali e quella della vegetazione, dalla quale dipende la durata e l'efficienza del manto erboso. I fattori in gioco sono molti e agiscono in modo complesso. La vegetazione reagisce in modo diverso al pascolo continuo; quest'ultimo, se praticato con gli ovini all'inizio della primavera, può causare una defogliazione pericolosa per la vegetazione in via di sviluppo, che si ripercuote dannosamente sulla produttività dell'intera annata. Vi sono poi influenze dovute alla specie, alla razza, e alla condizione fisiologica dell'animale; riguardano la mole, la vivacità, l'abilità nel prendere il cibo del pascolo, la maggiore o minore tendenza a preferire l'una o l'altra essenza o famiglia vegetale; caratteristiche che si ripercuotono sulla efficienza della produzione vegetale e animale.

L'alimentazione, con il solo foraggio verde, utilizzato al pascolo da un allevamento con esigenze costanti, per numero o per necessità individuali, trova quindi dei limiti insuperabili nell'azienda di montagna. Sono limiti intrinseci alle caratteristiche della produzione foraggera e che possono essere superati soltanto con una adeguata integrazione di alimenti di scorta rappresentati da mangimi concentrati. Se questa integrazione non viene data nella necessaria misura, gli animali riducono o annullano la produttività, esauriscono le loro riserve energetiche e, con il pascolamento, esercitano sulla vegetazione una pressione eccessiva con il maggior calpestio, con l'estirpazione delle piante su una cotica vegetale che è incapace di reagire. Tale squilibrio danneggia gli animali e l'ambiente naturale nelle sue capacità produttive e anche di difesa e protezione del suolo.

Il miglioramento della distribuzione delle disponibilità alimentari mediante l'uso di scorte foraggere aggiuntive o di mangimi concentrati, non è detto che soddisfi e migliori la convenienza dell'allevamento di montagna. La ricerca e la scelta del migliore equilibrio fra la produzione vegetale e l'allevamento risulta quindi complicata da motivi di convenienza economica.

Arriviamo all'attualità e alla nuova generazione di allevatori e ragionando con i numeri che derivano sempre dall'ultimo censimento dell'agricoltura dell'anno 2010, la situazione agroforestale zootecnica è la seguente:



La popolazione anagrafica dell'ultimo censimento è di 959 persone e la situazione zootecnica attuale è diversa da quella rappresentata per il periodo 1945-1963. Le differenze sono notevoli: sono scomparsi gli animali da lavoro agricolo e boschivo (muli, cavalli, cavalle, asini e buoi) e le capre, ma sono aumentati i bovini e gli ovini per la produzione del latte e dei prodotti derivati; il miglioramento genetico ed ambientale ha incrementato notevolmente la produttività degli animali; è aumentata la consistenza degli allevamenti e le piccole aziende sono scomparse; la presenza delle macchine agricole ha ridotto il lavoro degli addetti e ha velocizzato le operazioni, soprattutto quelle inerenti alla fienagione; c'è una adeguata e innovativa professionalità degli imprenditori, fra l'altro ben radicati sul territorio. Paradossalmente dalle debolezze del passato è derivata la forza della nuova zootecnia, perché è aumentato lo spazio alimentare per gli animali allevati. Anche il paesaggio agrario è cambiato: il color oro delle messi mature è scomparso, niente più biche di covoni e operazioni di mietitura e trebbiatura. Per vaste zone del territorio,riappare il paesaggio del saltus, sempre più pastorale per la prevalente estensione dei terreni incolti.

Nell'anno 1972, in piena crisi della zootecnia locale, nacque, con le stalle ubicate nella località Fonte del Pezzente, la Cooperativa Agricola "S. Nicola" per l'allevamento 700-800 ovini. Una "atipica" cooperativa, ma, con tutto il male che le si può dire, è stata una grossa novità zootecnica.

Tutto ciò scritto e per restare nell'obiettivo sopra esposto, è opportuno ragionare se esistono le disponibilità foraggere, e ancora, se le stesse siano adeguate ai fabbisogni alimentari del bestiame nel periodo di pascolo e quali i margini di miglioramento presentano, perché il fatto più importante come è stato sopra rappresentato non è solo l'estensione delle zone comunque pascolabili ma anche la qualità e le quantità alimentari prodotte dalle stesse.

I pascoli storici comunali sono: Guardata-Difesa, Monte Campo-Val Rapina, Iaccio della Vorraina e Monteforte, per una estensione di circa 600-700 ettari. Ad essi poi, se si supera la definizione classico-scientifica secondo la quale sono da ritenersi pascoli le formazioni erbacee di specie naturali e permanenti, possono essere sommati, per effetto dell'abbandono e perché pascolabili, gli i incolti produttivi dei privati (gli ex seminativi) si ha una superficie pascolabile di oltre 2.000 ettari.

  • Guardata: tra i pascoli naturali, è stato di gran lunga il migliore per la qualità della sua composizione floristica e per la vicinanza al paese. È stato utilizzato dai bovini, dagli equini da lavoro e a volte anche dagli ovini. Attualmente il suo potere vegetativo, a causa della sottoutilizzazione, per la mancanza di animali, si è ridotto notevolmente e si sta trasformando in altre tipologie vegetali non adatte al pascolo. Definire la Guardata pascolo cespugliato forse è un eufemismo, perché l'eccessivo sviluppo di arbusti (rosa canina, biancospino, uva spina), cardi, carline, ononide spinosa (cessabue) e tra le graminacee il Brachypodium pinnatum (falasco), la rendono quasi impraticabile.

  • Monte Campo-Val Rapina: la superficie a pascolo è quasi inesistente per la presenza di un esteso imboschimento, effettuato sulla "piana" del monte tra gli anni 1960-1970 con il pino nero, che generò anche un forte impatto psicologico sulla popolazione che dubitava sul l'esito positivo dell'intervento.

  • Iaccio della Vorraina: la superficie a pascolo è esposta sul versante est di Monte Capraro su un substrato di natura eminentemente calcareo e su un suolo poco profondo. Nel tempo non ha subito modifiche nella continuità della copertura vegetale e composizione floristica. La produzione della cotica erbosa risente l'aridità del periodo estivo.

  • Monteforte: la cotica erbosa è quella che ha conservato, più di ogni altra, la propria configurazione botanica ed agronomica. ll piccolo bacino carsico continua ad essere falciato e poi pascolato. Invece sulle sponde,su un substrato di natura calcarea, la cotica erbosa è soltanto pascolata.

Che proporre? Che fare? Uno degli obiettivi è quello di incrementare la produttività dei terreni pascolabili e che la stessa sia la più costante possibile per il periodo di pascolamento. Non si può nascondere né tacere che vi sono delle difficoltà oggettive determinate da condizioni ambientali che non possono essere eliminate ma solo attenuate. È opportuno porre in evidenza che l'erba dei pascoli è un prodotto intermedio e non finito e assume un significato economico solo quando è utilizzato. Se ciò non accade, tutto il suo valore si degrada e va perduto, non potendo, come il bosco, aumentare la provvigione. È quanto si verifica in primavera che l'offerta dell'erba abbonda e supera i fabbisogni alimentari degli animali, mentre succede l'inverso nella stagione estiva. Sono queste situazioni che non permettono di avere il giusto equilibrio e costanza della produttività dei pascoli che dovrebbero essere corretti o provare a correggere con adeguate tecniche agronomiche, fra le quali le concimazioni e la letamazione sono gli unici mezzi proponibili per il miglioramento dei terreni con buone qualità pedologiche. La superficie degli incolti produttivi attualmente a "disponibilità abusiva" è la più estesa del territorio comunale e alla quale non è possibile rinunciare, perché senza il suo uso ci sarebbero delle difficoltà nell'esercizio del pascolo soprattutto per gli allevamenti ovini. Per essa, però, si dovrebbe studiare, con la collaborazione e consenso dei proprietari, una forma di conferimento solidale (gratuito?) a favore degli allevatori che permetta la relativa utilizzazione, senza vincoli e discontinuità sul territorio e con la possibilità:

  • di organizzare il territorio secondo le esigenze fisiologiche degli animali;

  • di attuare interventi di miglioramento per il ritorno a prati e prato-pascoli, dei i terreni per i quali ciò è tecnicamente possibile.

Gli altri, quelli meno idonei a qualsiasi miglioramento, andrebbero lasciati alla loro naturale evoluzione, ma con una funzione molto importante nell'ambito dell'azienda: l'uso come pascolo di recupero durante i periodi di inizio e riposo della vegetazione (inizio primavera, inizio autunno). La maggiore superficie produttiva "a verde" avrebbe anche una azione di notevole effetto ambientale sul tutto il paesaggio con la ricaduta positiva sul turismo. Vagheggio. Utopia. È vero che non è un obiettivo di rapida soluzione, ma serve comunque a dare la direzione verso la quale bisogna andare e come dice un antico adagio "ogni percorso, lungo o breve che sia, comincia sempre con il primo passo". Con il trascorrere del tempo, senza la presenza degli animali e lo sfalcio, i terreni abbandonati incolti saranno come la Guardata, luogo infestato da rovi e cespugli. Possiamo mettere l'iniziativa nelle mani dell'Autorità Comunale? Io ci provo. Comunque discutiamone. Senza pregiudizi.

Anche i pascoli naturali di antica formazione richiedono cure particolari ed adatti accorgimenti agronomici per favorire (cosa non facile) l'accumulo di sostanza organica esaurita nel tempo e dare maggiore consistenza e resistenza alla cotica erbosa. L'Associazione Provinciale Allevatori di Campobasso (direttore Maurizio De Renzis) in collaborazione con l'Assessorato Regionale Agricoltura e Foreste, ha promosso nell'anno 1990 la realizzazione di un programma di studio e valorizzazione delle aree a pascolo della Regione Molise che non ha avuto però alcuna applicazione, ma che invece potrebbe essere un riferimento essenziale per la scelta degli interventi migliorativi dei pascoli.

Ma è stata data risposta al quesito posto all'inizio di questo scritto? È riscontrabile, in queste condizioni di allevamento, l'equilibrio tra le risorse alimentari che il territorio offre e i fabbisogni degli animali? Non è certa la risposta affermativa, in mancanza di elementi conoscitivi degli alimenti e delle necessità per ogni singolo animale. Pur tuttavia è possibile rispondere positivamente sulla base di parametri empirici, citando il benessere generale degli animali e le produzioni quantitative e qualitative del latte degli allevamenti, senza eliminare o ridurre le azioni per migliorare la produttività dei prati e dei pascoli, necessarie per aumentare le disponibilità alimentari sia per periodo estivo che per quello invernale. Ancora, perché più pascolo migliora lo stato del benessere degli animali, la qualità delle produzioni, riduce l'uso dei mangimi e il costo dell'unità foraggera.

Tutte le azioni di miglioramento agronomico dei prati e dei pascoli potrebbero essere comprese in un programma pluriennale da finanziare, in mancanza di risorse pubbliche specifiche, con i proventi derivanti dai tagli del boschi gravati da usi civici, come sembra più legittimo l'uso degli stessi fondi.


Lorenzo Potena

(a cura di Sebastiano Conti)

 

Fonte: http://www.altosannio.it/, 27 gennaio 2018.

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