Da noi l'emigrazione è un fatto costante e antichissimo e, quantunque gli abitanti amino i loro monti, nondimeno, ai primi di autunno, sentono come le rondini, il bisogno imperioso di lasciare le proprie case e andare in cerca di lavoro fuori. E non è il solo bisogno materiale che li spinge a questo. I capracottesi hanno come un istinto per l'emigrazione e però sono sparsi in quasi tutti i comuni del mezzogiorno.
La ricordo come fosse adesso quella sensazione che provavo da bambina: d'inverno faceva notte presto in città. Ero introversa, silenziosa e passavo interi pomeriggi a disegnare, a lavorare la plastilina, a fare le costruzioni. Sembrava che giocassi. In realtà stavo solo aspettando. Aspettavo allora come aspetto adesso. Come quando hai la testa sott'acqua e trattieni il respiro e aspetti. Aspetti di poter finalmente risalire, aprire la bocca e respirare. Rompere quella coltre d'acqua immensa che ti tiene giù e tornare al tuo elemento naturale, l'aria, quella che ti è indispensabile per vivere. Aspettavo che le giornate finalmente tornassero ad allungarsi. Che il freddo abbandonasse le strade per lasciare il posto alla primavera. Che tornasse maggio. Con le sue rondini e le prime gemme sugli alberi spogli. Aspettavo di salutare la maestra e le quattro mura della scuola. Abbandonare quella vita piena di paure: non fare quello, non dare confidenza a quell'altro, non uscire se fa buio, non attraversare la strada è pericoloso, chiudi la porta a chiave, non accettare le caramelle, stai a casa che è meglio, metti la canottiera di lana se no prendi freddo, non correre se no sudi e ti ammali... Abbandonare il cemento, l'asfalto, il grigio, l'aria pesante di smog, la folla, il rumore, la tristezza. Abbandonare quella specie di prigione che era la mia città. E finalmente tornare a casa. Tra le mie montagne. Questa è la sensazione che non scorderò. Che se ne sta ben piantata al centro di me anche adesso. Sapere che quella dove vivi non è casa tua. Perché casa tua è un piccolo paesino di montagna arroccato a 1.421 metri sul livello del mare e ti aspetta sepolto sotto metri di neve per tutto l'inverno. È lontano ma c'è. Non lo vedi ma c'è. E prima o poi, come dice sempre mia nonna, arriverà maggio a riportarti in quel luogo. Che non è solo un nome scritto sulla cartina geografica ma è un posto dell'anima.
Da bambina era una liberazione. Niente più paure. La porta sempre aperta. Le corse sul prato. Bambini e bambine sempre diversi con cui giocare. Ginocchia sbucciate da leccare e rondini che fanno il nido sotto il tetto di casa tua. Il cielo immenso, quasi senza confini. Il silenzio profondo e in lontananza i campanacci delle mucche, qualche cane che abbaia, un mosca che ronza che pare un aereo e il vento che attraversa i rami degli alberi e muove le spighe di grano, bionde. Una farfalla che ti si posa sulle mani e poi vola via, schizzi di papaveri rossi e tramonti da mozzare il fiato. E tu, che anche se sei bambina, ti senti come se fossi una regina, una guerriera che sguaina la spada sul tetto del mondo, un gigante con le gambe talmente lunghe da poter saltare con un passo solo da una valle all'altra... In città sei meno che niente. Piccola e indifesa. Qui sei forte come un cavallo bianco che galoppa sui prati al tramonto. Altro che bambole e disegni e costruzioni. Adesso, invece, è una consapevolezza. Ti porti dentro le tue montagne tutto l'anno e sai che ti accompagneranno per tutta la vita. Sono la tua porta sull'infinito. Sono la certezza che qualcosa ci dev'essere che va oltre la nostra semplice vita terrena se qualcuno ha creato le nostre valli, i nostri alberi secolari, le rocce scavate dalla neve che si scioglie, la nebbia che avvolge le nostre case costruite con il sacrificio dei nostri antenati. E dico nostre e non mie, perché lo so che questa sensazione, questa consapevolezza non la porto dentro da sola. Sono sicura che tutti quelli che come me sono nati in una grande città e vivono tutto l'anno in una grande città perché la Storia con i suoi tortuosi percorsi li ha allontanati dalle montagne, si sentono in qualche modo come sospesi in una parentesi. E aspettano di poter respirare la loro aria, di nuovo.
E di tornare, di nuovo, alla vita.
Marcella Russano
Fonte: M. Russano, Capracotta, luogo dell'anima, in «Voria», III:2, Capracotta, dicembre 2009.