L'anno doganale si apriva con la data del 15 agosto ma la partenza delle greggi per il piano non avveniva prima del 15 settembre, in coincidenza con la fiera di Lanciano, a meno che condizioni atmosferiche particolarmente avverse non ne imponessero l'anticipo.
Era vietato al bestiame transumante di varcare il fiume Fortore prima della metà di ottobre, epoca per la quale il doganiere si portava dalla sua sede a quella di Serracapriola per la numerazione dei capi animali e per l'assegnazione dei relativi pascoli.
L'abbondante quantità di superficie pascolativa di Puglia era stata divisa in 23 "locazioni" più 20 cosidette "aggiunte", che si suddividevano in ben 400 "poste".
I locati, riuniti secondo la loro "patria" o paese di appartenenza, occupavano sempre la medesima locazione.
Risulta che quelli di Capracotta e di Vastogirardi erano soliti soggiornare nella locazione di Salpi, che fra l'altro non era una delle più ricche, mentre i pastori di San Pietro Avellana svernavano nella locazione di Cave, che era ancora più povera.
Quanto a fertilità, non tutte le poste erano uguali, motivo per il quale la loro assegnazione variava di anno in anno, attesa la gara che si scatenava fra i massari per accaparrarsi, per sorteggio, le migliori partizioni di pascolo.
Luigi Campanelli, nostro conterraneo, tramanda che «ai massari capracottesi furono assegnate vaste estensioni di pascoli nelle locazioni di Canosa, Gaudiano, Locone, Minervino, cioè nel versante a destra della corrente dell'Ofanto, su verso Venosa e fin sulle Murge di Minervino». E soggiunge che fra i locati figuravano iscritti la cappella di S. Maria di Loreto e tutta una serie di famiglie, dai Baccari e Castiglione ai Mosca, Pizzella, Di Tella.
In attesa che venisse fatta la rivelazione del numero delle pecore da parte dei proprietari e la conseguente assegnazione del pascolo spettante, le greggi sostavano nei "riposi", che erano vaste estensioni di pascoli demaniali.
Dei tre più importanti, Saccione, Sant'Angelo e Murge, il primo era il maggiore e ci interessa più da vicino perché situato fra le foci dei fiumi Sangro, Trigno e Fortore.
L'operazione di registrazione dei nomi degli affittuari e del carico delle loro bestie nel libro doganale, detto "Squarciafogli", fondamentale ai fini preminenti del pagamento della "fida", doveva essere chiusa per il 25 novembre, giorno di santa Caterina di Alessandria.
Da quella data in poi le mandrie invadevano la «Puglia piana» per tutta la durata dell'inverno e vi sostavano fino al 25 di marzo, giorno dell'Annunziata.
A questa data avveniva la "scommissione della Puglia" (ne sappiamo qualcosa anche noi se ancora oggi è usanza l'8 maggio "scommettere la Guardata", il pascolo comunale di Capracotta), il che significava che le greggi potevano circolare liberamente sui pascoli del demanio e mettersi in moto in direzione della città di Foggia, che raggiungevano ai primi di maggio per lo svolgimento della famosa fiera, di cui c'è tuttora testimonianza annuale attraverso una manifestazione fieristica imponente a primavera.
Era questo l'ultimo atto che scandiva la vita del pastore abruzzese transumante, ed era anche il momento culminante perché in quella circostanza i locati vendevano la lana, i formaggi, gli agnelli e i castrati, realizzavano il guadagno di un anno di lavoro e pagavano al fisco la seconda ed ultima rata della fida.
La prima veniva versata a febbraio, a seguito di una verifica effettuata dai "cavallari", che in numero di trenta erano addetti alla custodia del demanio.
A questo punto l'avventura in Puglia era terminata e gli animali e i loro conduttori riprendevano la via dei monti, da dove erano discesi, e che riguadagnavano entro la fine del mese di maggio.
Il rientro in paese, l'incontro con le famiglie, l'aria, l'acqua e il profilo delle montagne natie mettevano nel cuore degli uomini addetti all'industria degli armenti una gamma di sentimenti felici e sereni, che spesso i poeti si sono sforzati di rendere per la via dell'arte.
Se prima del secolo XV il flusso migratorio pastorale non aveva raggiunto l'acme delle sue potenzialità, ciò era da addebitarsi anche e prevalentemente all'insicurezza del viaggio, sia per eventuali incursioni a danno del patrimonio zootecnico, sia per le angherie e i soprusi di conti, marchesi, baroni e città varie.
I Signori di Aragona, nel riassetto generale radicale che diedero alla pastorizia, provvidero anche a questo aspetto itinerante della situazione ed autorizzarono e curarono l'apertura di una fitta rete di vie di comunicazione, diligentemente e rigorosamente sorvegliate, che vanno sotto il nome di "tratturi".
Si tratta di strade erbose, larghe 60 passi napoletani, corrispondendi a circa 111 metri. Erano collegati tra loro per mezzo dei tratturelli, larghi 20 passi, cioè 27 metri.
L'intero reticolo di essi assumeva a circa 1.400 chilometri e includeva quattro "vie regie" principali: L'Aquila-Foggia, Celano-Foggia, Pescasseroli-Candela e Castel di Sangro-Lucera.
I pastori di Capracotta prendevano il tratturo di Celano, che nel Molise si svolgeva da San Pietro Avellana e continuava per i territori di Vastogirardi, Carovilli, Pescolanciano, Salcito, Castelbottaccio. Valicato il fiume Biferno a valle del Ponte Morgia Schiavone, risaliva il territorio di Morrone, costeggiava Ripabottoni, passava in agro di Sant'Elia fino a San Giuliano di Puglia.
Dal Sangro al Fortore misurava non meno di 90 chilometri.
Ma i nostri pastori battevano anche il tratturo che dal Ponte della Zittola, presso Castel di Sangro, andava a Lucera e si estendeva nella regione molisana per oltre 80 chilometri. Lo prendevano a Pescolanciano e proseguivano per Chiauci, Civitanova, Duronia, Torella, Castropignano. Risalivano per i tenimenti di Oratino, Ripalimosani e Campobasso, toccavano Campo di Pietra e seguendo il fiume Tappino fin dove si versa nel Fortore, passavano il Ponte dei 13 Archi sotto Gambatesa.
Il diploma del 1° agosto 1447 peraltro, ordinava tassativamente che nessuna molestia venisse arrecata ai transumanti ed alla loro proprietà e comminava severe sanzioni ai trasgressori. Concedeva il passaggio libero e garantito e imponeva che lo stesso avvenisse anche sulla proprietà privata, con l'obbligo di concedere la sosta di 24 ore e, in caso di maltempo, fino a 4 giorni.
Tralascio di narrare la vita di tratturo, molto faticosa e disagevole, ben nota a chi l'ha sperimentata in prima persona. Fra i presenti non sono pochi quelli che possono testimoniarla direttamente.
Per la protezione dei pastori, nei loro viaggi di andata e di ritorno, furono creati, come si è detto, 30 cavallari, i quali avevano, fra l'altro, il compito di sorvegliare affinché gli animali non entrassero a pascolare nelle locazioni prima del tempo stabilito.
Se ciò accadeva, si incorreva nella pena della "scommessione" con il conseguente pagamento di una multa.
In autunno e a primavera i funzionari, detti cavallari, controllavano i sei passi di ingresso al Tavoliere, posti a Guglionesi, Ponterotto, La Motta, Biccari, Ascoli e Candela, più tardi anche a Melfi e Spinazzola. A loro bisognava esibire la "passata", o permesso, rilasciati dal doganiere all'atto della ripartizione della posta e del pagamento a saldo della fida. La consuetudine voleva che fosse offerta loro dai pastori la "buona arrivata" e la "buona uscita", per una somma stabilita dall'Autorità non superiore a 2 carlini per morra di pecore, che ne comprendeva non più di 300.
C'è da aggiungere che la Corte reale di Napoli non possedeva soltanto terreni saldi per la pastura, ma aveva anche le cosidette "terre di portata", destinate alla coltivazione e assegnate soprattutto a coloni naturali pugliesi. Però è da dire che questo secondo tipo di demanio, gira e rigira, doveva tornare anch'esso utile alla pastorizia che, ormai è chiaro, era l'attività che stava più a cuore ai regnanti napoletani.
Ciascuna terra di portata era suddivisa in ben cinque parti delle quali una doveva rimanere sempre salda e, con il nome di "mezzana", doveva rispondere alla necessità di alimentare i buoi aratori.
Delle rimanenti quattro parti, solo due potevano essere seminate in un anno, mentre la terza, detta "restoppia", coltivata l'anno precedente, rimaneva a disposizione dei locati abruzzesi per tutto l'inverno successivo.
L'ultima restante porzione di terra, detta "nocchiarica", era costituita dalla restoppia dell'anno precedente e veniva utilizzata dai pastori solo fino al 17 gennaio dell'anno successivo, quando bisognava lasciarla libera per la maggese.
Era stato calcolato dai tecnici del tempo che entrambe le proprietà demaniali, sia i terreni saldi che le terre di portata, erano in grado di alimentare non più di 900.000 pecore. Gli aragonesi, interessati a convogliare in Puglia il maggior numero possibile di armenti, affittarono dai privati ulteriori sterminate estensioni di pascolo, per un tempo indeterminato, pagando il giusto canone e garantendo con ogni possibile larghezza l'alimentazione animale. Queste superfici particolari furono chiamate pascoli "straordinari soliti".
Essi passavano sotto la diretta competenza del doganiere, previo regolare pagamento - ripeto - e dal 29 settembre al successivo 8 maggio non potevano essere utilizzati dai "massari di campo", i quali invece avevano la facoltà di usarli d'estate. Si distingueva così l'erba "statonica", pascolata d'estate dai buoi, da quella "vernotica", usufruita nel periodo invernale dagli ovini.
Ad evitare che, negli anni in cui era massiccia l'affluenza delle greggi, non scarseggiassero i pascoli, la Dogana aveva il diritto di requisire altri pascoli dei privati, che perciò non ne potevano autonomamente disporre se non dopo il 25 novembre, quando il "ripartimento" era stato concluso.
Questi pascoli furono chiamati "straordinari insoliti" e, uniti agli altri, furono in grado di sopportare qualcosa come 1.300.000 capi ovini, che nel gergo doganale fu detto il "possedibile".
Tutta la cosidetta «Puglia piana», che era quella che offriva la maggiore quantità di superficie pascolativa per la transumanza invernale, si estendeva per 60 miglia napoletane in lunghezza da Torremaggiore ad Andria e per una larghezza di 20 miglia da Troia a Rignano Garganico.
Per concludere su questo punto, tutti i pascoli pugliesi "soliti" abbracciavano una superficie complessiva di 15.650 carra, pari a circa 400.000 ettari, arrotondati per eccesso con qualche larghezza.
I terreni di Puglia si misuravano a carra, versure e catene. Ogni carro equivaleva a 20 versure e ogni versura a 20 catene.
Poiché una versura corrispondeva a 4 moggia, di conseguenza un carro equivaleva a 8 moggia.
Luigi Conti
Fonte: L. Conti, Capracotta. Il mondo pastorale antico, S. Giorgio, Agnone 1986.