Tutto era cominciato in un radioso mattino in cui il cattivo tempo aveva ceduto la scena ad uno splendido sole, le condizioni meteo favorevoli avevano sollecitato la corsetta troppo a lungo rinviata. Si era ritrovata ad imboccare la solita strada extraurbana dove, dai campi prospicenti percepiva sommesso, forse a causa dei recenti rovesci, l'aroma di aglio rosso che, con i confetti, è considerato uno degli strani tesori di questo luogo.
Pienamente immersa nella musica dei Pink Floyd diffusa dagli auricolari, non aveva avvertito l'elegante auto scura con targa straniera che si era accostata e del passeggero che chiedeva indicazioni per raggiungere il supercarcere. Lo troverà alla sua sinistra dopo aver superato il semaforo e il cavalcavia. Il breve dialogo aveva dirottato la sua attenzione sul panorama come se mai fosse passata da quelle parti, il nuovo complesso carcerario, tutto cemento e ferro, in lontananza Corno Grande, sommità del sovrano degli Appennini, il Gran Sasso e, mimetizzato dalla folta vegetazione e dall'impalcatura per il recente restauro, il campanile dell'Abbazia di Santo Spirito al Morrone ove, fino agli anni Novanta dello scorso secolo, aveva avuto sede la vecchia casa di reclusione.
Lungo il percorso, la riflessione sulle profonde differenze fra le due cittadelle carcerarie si era alternata con le elucubrazioni sullo sfregio inferto al Monte dal devastante rogo dell'estate 2017 e con la considerazione relativa ai luoghi d'interesse custoditi in questo lembo del Morrone: Fonte d'Amore, celebrata oltre venti secoli fa dal Poeta, i resti del tempio di Ercole Curino, sito lungamente identificato quale villa del Poeta, il Campo 78, dalla numerazione che i Tedeschi attribuirono ai campi di concentramento sul territorio italiano e, ricorrendo alla descrizione di Giuseppe Capograssi, illustre figlio di questo luogo, «la piccola casa, a mezzo il monte, la casa antica e santa di quel singolare e mirabile papa Celestino che fu poi santo, e che rifiutò o meglio rinunziò, per tornare alla bella montagna serena, alla vista della gran valle incantata, il triregno e il gran manto. Rivedo il povero frate eremita... chiedere a Dio l'eremo solitario e orrendo, e il grande silenzio mistico della montagna nuda [...]. Egli rimpiangeva amaramente i grandi cieli e la grande pace della grotta nativa, il profondo silenzio delle montagne, il profondo azzurro della notte stellata che parlava della gloria di Dio».
A corsa terminata era passata nei pressi di un immobile in ristrutturazione sulla cui facciata campeggia il manifesto, color rosso pompeiano, che rammenta l'evento celebrato nel 2017: il bimillenario della morte del Poeta e, nel rincasare si era soffermata a rimirare, ancora una volta, il ragazzo del ritratto caricatura che, dietro gli occhialoni da sole, immaginava la fissasse con la sua inconfondibile espressione sorniona. In quell'istante cominciava a persuadersi che l'ambiente circostante le stava fornendo alcune delle tessere di un mosaico che desiderava comporre, avrebbe dovuto cercare le mancanti. L'intuito le suggeriva di esaminare il cospicuo materiale che, ormai già da qualche anno, le era stato affidato in custodia e che aveva ignorato per mancanza di tempo. Dopo un'indagine spasmodica, a seguito della quale aveva rinvenuto persino una copia del periodico "Voria" che conosceva unicamente in versione digitale, era faticosamente riuscita a individuare ciò che cercava. Ancora oggi, nonostante il lungo tempo trascorso, evocare l'attimo dell'identificazione della documentazione che sperava fortemente di reperire le fa provare sempre la stessa piacevole sensazione di euforia.
I frammenti incastrati rivelavano, via via la città, Sulmona, il Poeta e il ragazzo, tutt'altro che contemporanei fra loro e che, ad accostarli, poteva sembrare ardito ma le prove della loro frequentazione, custodite in un recondito anfratto della memoria avevano scatenato la sua curiosità.
Così, grazie a vecchi libri, ritagli di quotidiani, fotografie in bianco e nero, un fascicolo dal titolo "Amicizia Italo-Romena" era iniziato un sorprendente viaggio nel passato.
Intervento oltremondano
L'avevo sorpresa che frugava nella cassapanca contenente il mio passato, parte del mio passato, e avevo colto le espressioni che si avvicendavano sul suo volto. Lo stupore si era alternato all'aria interrogativa, ripetutamente pareva si chiedesse "chi era costui?", l'interesse per quel documento, quella foto o quel libro aveva infine lasciato spazio all'aria soddisfatta di chi aveva trovato un piccolo tesoro. Ella era alla ricerca di tracce di un suo illustre concittadino che, alcuni decenni or sono, mi videro coprotagonista di eventi volti a celebrarlo e lei se ne era ricordata... nulla di eccezionale se non fosse che, all'epoca dei fatti, poteva avere otto o nove anni. Ipotizzo che abbia ricordato un evento in particolare, forse perché in uno dei giorni in cui ero impegnato nella "Settimana dell'amicizia Italo-Romena", il 24 luglio 1973, era nato suo cugino il mio nipote più giovane. Riusciva a disorientarmi col suo evocare episodi del passato non recente ed ero convinto che la sua memoria avesse del prodigioso, di tanto in tanto mi aveva anche rammentato della visita della delegazione degli ex prigionieri Britannici della Seconda guerra mondiale che arrivarono in città nell'estate del 1978 - all'epoca era però adolescente - e, con una indimenticabile cerimonia, Cristoforo prelevò due mattoni da Campo 78 affinché uno venisse custodito a Palazzo San Francesco, sede del Municipio, e l'altro lo portarono via con loro in patria, «per non dimenticare l'orrore della guerra». Recentemente è stata data una spiegazione all'arcano: è affetta da ipertimesia, possiede cioè una memoria biografica superiore e per questo senza alcuno sforzo riesce a trasformare un ricordo in una nitida rappresentazione dell'esperienza originale. Si tratta di mia nipote, creatura forastica oltre che ipertimesica, cugina inseparabile di mia figlia Mari, ciascuna delle quali a loro dire viveva il triste status di figlia unica. Mio cognato, non l'abusivo, l'altro, aveva preso a definirla orso peligno a causa del suo fare prevalentemente malmostoso. Solo in occasione delle feste e dell'estate, quando da Roma arrivavano i miei tre nipoti e si ricostituiva la banda dei piccoli di casa, grazie ad una febbrile attività diplomatica della mia Mari e di Antonello, si riusciva a vederla appena appena cordiale.
Ma lasciate che mi presenti. Sono l'uomo del ritratto e non il ragazzo ahimé! contavo cinquanta primavere quando il maestro Maiorano lo realizzò e me ne fece dono, graditissimo. Avevo i baffi a causa di una scommessa... persa, lascio immaginare che burlone potessi essere: carnefice ma anche vittima! Sono nato a Capracotta nell'unico mes' 'e frische sotto il segno del leone, all'anagrafe Antonio, per la famiglia e gli amici Ninetto, un cognome che, guarda il caso, genera perfetta consonanza con il luogo di nascita quasi a sancirne il legame profondissimo. Di Capracotta ho sempre adorato tutto, tanto da ritenere che la vòria, il tipico vento che spadroneggia nei lunghi inverni, e le copiose nevicate, fonte di diletto di cui mai ero pago, siano pura poesia al contrario di quanto affermava il resto della famiglia. In seguito, accadde che chiunque ascoltasse i miei racconti rimaneva talmente rapito che volentieri mi seguiva per visitare il luogo che mi diede i natali: dalla valle Peligna, a bordo della mia Fiat 124 pervasa delle note del "Tema di Jill" dell'immenso Morricone, capitanavo gioiose carovane di vetture per splendide gite con il sottoscritto che mostrava, nell'inedita veste di guida turistica, Capracotta in lungo e in largo a cominciare dalla tenuta Monte di Mezzo nei pressi della stazione San Pietro Avellana-Capracotta, passaggio obbligato per il Santuario di Santa Maria di Loreto, trattenendosi lungamente in centro per poi arrivare a Prato Gentile. Attualmente, oltre alla creatura forastica, c'è persino qualcuno dei miei antichi pards che rammenta ancora la torre post-bellica causa miei accorati lamenti in ricordo dell'originale distrutta dai Tedeschi.
Lo devo ammettere, la mia vita fu segnata da esperienze estreme, fui fanciullo terribile dapprima, con i miei cugini Michele e Pasqualino ne combinavamo di ogni, ragazzo difficile poi, ribelle, caparbio, amante delle mie opinioni e insubordinato a prescindere tanto da abbandonare gli studi per uno sciocco capriccio. Percepivo perfettamente che gli adulti avevano ormai preso a considerarmi uno di quei perdigiorno magistralmente descritti dalla premiata ditta Fellini, Flaiano & C. nel film "I vitelloni" e che nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di me.
Con questo curriculum vitæ arrivai nella città degli strani tesori in quel terribile inverno del 1943. Imperversava la Seconda guerra mondiale e i nazisti, in ritirata, avevano ridotto in macerie i luoghi, posti lungo la linea Gustav, ove avevo vissuto fino a quel momento. L'addio al borgo, che desideravo con tutto me stesso solo transitorio, il lungo viaggio in cammino verso l'ignoto, oggi come allora, suscitano in me profonda mestizia. L'arrivo in città, al contrario di quanto andavo immaginando, mi riservò una calda accoglienza da parte dei cari paesani che mi introdussero in un gruppo di coetanei. Ebbi tuttavia appena il tempo di ambientarmi e stringere amicizia con Aroldo e Alfonso che fui chiamato a prestare servizio militare di leva a Bergamo. Di quei lunghi mesi mi resta un ottimo ricordo del poco tempo libero la cui colonna sonora era scandita dalle musiche di Glenn Miller giacché, ben presto, grazie alla celeberrima "In the mood", divenni un discreto ballerino di boogie woogie. Quanto all'esperienza militare ehm!... dopo tutto questo tempo posso ammettere che, a causa della mia innata attitudine a cacciarmi nei guai, non fu delle migliori.
Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona.
Perché evocare Hillman? Per spiegare che il daimon tardò a manifestarsi e, quando accadde, si servì di due uomini straordinari che riuscirono a far emergere le mie inclinazioni. Il primo, uomo di chiesa che aveva posto alla base della sua vita pastorale il rapporto con i giovani fu il parroco della Cattedrale di San Panfilo. Il nostro primo incontro avvenne nella cucina, unica stanza fruibile, della piccola casa di via Gran Sasso dove stavo dando lezioni di latino a due ragazzini del vicinato. Egli invece era in giro con un carrettino per raccogliere cibo da dare ai poveri per contrastare la miseria nera che caratterizzava l'immediato dopoguerra. Mia madre, nonostante le nostre ristrettezze, riuscì a rabberciare qualcosina sottraendola al già misero pasto che stava preparando per la nostra cena e fu l'occasione per confidare le sue preoccupazioni di donna sola, col marito emigrato in Venezuela per poter lavorare e quattro figli, le tre femmine: una sarta, l'altra commessa e l'altra ancora studentessa, e l'unico maschio, il maggiore, che non aveva ancora trovato la propria collocazione nel mondo. Stupito dal fatto che non possedessi un diploma nonostante la mia dimestichezza con il latino, titillando le più recondite corde del mio amor proprio, mi persuase a riprendere gli studi bruscamente interrotti e lo fece affidandomi alla seconda persona che ebbe un ruolo di rilievo nella mia vita, un professore che, condividendo appieno l'ottima nota di qualifica «con i suoi allievi instaurava quel colloquio di anime che è il presupposto di ogni efficace insegnamento».
Partigiano, giovanissimo fu arrestato e recluso nel carcere di Regina Cœli, uomo che mise la sua cultura al servizio delle istituzioni della politica locale fino a divenire presidente del Consiglio della Regione Abruzzo. L'occasione era tale che non potevo fallire, tenendo conto che il Don seguiva le mie vicende e, per dirla fino in fondo, continua a vegliare su di me col solito sguardo benigno poiché le nostre dimore, ultime, sono l'una di fronte all'altra. Cercando di conciliare piccoli lavori con lo studio riuscii a conseguire il diploma magistrale e ad iscrivermi all'Università la cui frequenza fu interrotta dall'inizio del mio impiego, in qualità di insegnante, presso la casa di reclusione che aveva sede presso l'Abbazia di Santo Spirito al Morrone a Badia, ambiente che cominciai a descrivere nei miei reportage che, periodicamente, venivano pubblicati sulla stampa locale. Contestualmente iniziò a manifestarsi il mio interesse per la politica che divenne, pian piano, una vera passione. Il parroco, pur non condividendo il mio orientamento politico, mostrò sincero entusiasmo per la mia metamorfosi e, dopo adeguata formazione, fui coinvolto nella politica attiva della città che mi vide antagonista del mio ex professore ma sempre all'insegna della collaborazione per il bene comune, territorio e concittadini, e del reciproco rispetto.
Quilibet hanc sævo vitam mihi finiat ense,
me tamen extincto fama superstes erit,
dumque suis victrix omnem de montibus orbem
prospicie domitum Martia Roma, legar.
[Qualcuno potrebbe anche por fine alla mia vita con la spada crudele, ma la fama resterebbe intatta dopo la mia morte e finché Roma, la città di Marte, guarderà vittoriosa dai suoi colli il mondo a lei soggetto, continueranno i miei versi a essere letti.]
Veniamo ora al Poeta che tanta curiosità aveva suscitato nella creatura forastica fulminata, oserei, in occasione di quella provvidenziale corsetta troppo a lungo rinviata.
Publio Ovidio Nasone, la vita del quale fu segnata dalle, già citate, esperienze estreme, nacque da famiglia patrizia nella città degli strani tesori il 20 del mese di marzo, 43 anni prima di Cristo e, a differenza di quanto avvenne al sottoscritto, sin da ragazzo era totalmente posseduto dal suo daimon, egli aveva individuato tempestivamente la sua vocazione: era attratto dalla poesia. Tuttavia, per volontà del padre, che desiderava per lui la carriera forense, fu mandato a Roma per studiare eloquenza e retorica. Divenne avvocato e, per completare la sua educazione, iniziò un pellegrinaggio di cultura fra Atene, l'Asia Minore e la Sicilia. Al suo ritorno a Roma fu nominato giudice ma il grande amore che nutriva per la poesia lo portò ad abbandonare la pratica della legge e né gli onori conquistati nella magistratura dell'antica Roma né le pressioni paterne riuscirono a distoglierlo dalla sua inclinazione. Divenne uno dei più prolifici versificatori della latinità, praticando, spesso mescolandoli, i generi più diversi: erotico Amores, didascalico Ars amatoria, Remedia amoris e Medicamina faciei femineæ, elegiaco Heroides, epico Metamorphoseon, civile Fasti, epistolare Tristia, Epistulæ ex Ponto, tragico Medea e Gigantomachia, opere perdute.
Nell'8 d.C., mentre si trovava sull'Isola d'Elba, la sua vita tutta onori e successo fu segnata dall'episodio drammatico della condanna alla relegatio nell'antica Tomis, attuale città romena di Costanza, ad opera del princeps Ottaviano Augusto, senza neanche un sommario processo. Il motivo della condanna, mai dichiarato esplicitamente, ha appassionato fior di filologi e storici ma l'affaire Nasone ai giorni nostri risulta ancora un enigma sebbene, nelle opere dell'esilio, ricorrano ossessivamente due termini: «carmen et error», quasi a voler fornire degli indizi.
Gli studiosi moderni non ritengono fondata l'ipotesi secondo cui, col pretesto che l'Ars amatoria (carmen) fosse opera immorale e scandalosa e che il Poeta si fosse reso inavvertitamente colpevole di un intrigo con la nipote del princeps Giulia Minore (error), questi lo condannò alla relegatio, ma il motivo risieda piuttosto in tutti quei carmina in cui implicitamente, ma talvolta apertamente, il Poeta espresse un dissenso generale nei confronti del regime augusteo e delle prospettive successorie e non da un involontario error ma in una consapevole e volontaria adesione ad un progetto eversivo.
L'elegante ed imponente simulacro di Ovidio si trova nella centrale piazza XX Settembre, quella piazza XX che per gli adolescenti della generazione della mia Mari e della creatura forastica era luogo d'incontro, «una sorta di stanza degli ospiti alla quale un bizzarro architetto ha rimosso il soffitto, la stanza senza cielo preferita».
La statua fu realizzata da Ettore Ferrari - eccellente scultore italiano, autore, per intenderci, del Giordano Bruno in Campo de' Fiori a Roma e di innumerevoli altre opere - e costituisce ormai uno degli elementi identitari della città, ritrae il Poeta in atteggiamento di profonda meditazione, fu inaugurata il 30 aprile 1925 alla presenza del re Vittorio Emanuele III ma non dell'autore, repubblicano convinto, che arrivò in città il giorno precedente per completarla inserendo lo stilo nella mano destra senza tuttavia intervenire alla cerimonia. Si tratta in realtà del monumento gemello, il cui bozzetto fu esposto all'Esposizione Nazionale di Torino del 1884, di quello eretto a Costanza sin dal 30 agosto 1887.
Per sugellare l'unione fra le due patrie del Poeta, nel 1968 il senatore Amintore Fanfani suggerì alla compagine che amministrava la città un gemellaggio con l'obiettivo di promuovere iniziative per diffondere e far conoscere sia il nome del sommo Poeta sia quello delle due città gemellate attraverso progetti culturali ed educativi che coinvolgessero anche le nuove generazioni. Il 6 giugno 1968, in un mondo completamente diverso da quello odierno, in pieno clima di guerra fredda con la Romania aderente a blocco sovietico, la cultura riuscì ad aprire un varco con la realizzazione del gemellaggio Sulmona-Costanza nel nome di Ovidio. Numerose furono le iniziative che portarono in città personaggi del calibro del professor Ettore Paratore, uno dei più illustri latinisti dell'epoca, ho ancora ben presente la sua lectio magistralis e numerosi furono i viaggi alla volta di Costanza mossi da sincero fervore culturale.
Frugare nel mio passato - e pensare che ero fermamente convinto di essere stato inghiottito dall'oblio! - aveva intanto suscitato un interesse tale per il Poeta che, il 7 gennaio 2020 in occasione della proiezione del docufilm di Davide Cavuti "Lectura Ovidii" nel locale cinema gremito all'inverosimile, la creatura forastica, pur di non perderlo, era rimasta in piedi per tutta la durata del film e lungo la via del ritorno a casa avevo notato con piacere la sua aria soddisfatta di chi aveva esplorato con successo un mondo sconosciuto.
Colgo la stessa aria soddisfatta quando la vedo perdersi in passeggiate a Capracotta, percorrendo lo stesso terreno sul quale i nostri antenati avevano messo piede prima di tutti noi e anche della mia Mari.
Alda Belletti
Bibliografia di riferimento:
G. Capogrossi, Pensieri a Giulia (1918-1924), Bompiani, Milano 2007;
F. Ghedini, Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo, Carocci, Roma 2018;
J. Hillman, Il codice dell'anima, Adelphi, Milano 1997;
E. Mattiocco, Giuseppe Bolino: 13 gennaio 1926-18 novembre 1984, Colacchi, L'Aquila 2014;
Ovidio, Tristia, libro III, Rizzoli, Milano 2020;
A. Pizzola, La sera andavamo a piazza XX, Sulmona 2013.