Giovanissima diplomata del 1936 presso la Scuola di Ostetricia dell'Arcispedale "S. Anna" di Ferrara, che raggiungevo quotidianamente in bicicletta, non avrei mai potuto immaginare che il mio destino mi conducesse in un paese di alta montagna, per i tempi così "lontano", come Capracotta: per restarvi poi definitivamente fissandovi la mia residenza; avevo solo verificato, tra le offerte di lavoro per un incarico "interinale" di ostetrica condotta, che le maggiori segnalazioni provenivano dal Centro-Sud ed in particolare dal Molise. Del resto mi consideravo disposta ad affrontare qualsiasi difficoltà per una prima esperienza di lavoro che, oltre tutto, avrebbe finalmente compensato di tanti sacrifici anche mia madre vedova. Non avevo peraltro riflettuto al prevedibile disagio rappresentato dalle rilevanti diversità socio-culturali esistenti allora tra Nord e Sud Italia: tanto è vero che accettai a caso il primo dei tre comuni che mi propose la Prefettura di Campobasso notando solo che, assai singolarmente, la lettera iniziale dei loro nomi era per tutti e tre una "P" (come "Prova"?). Ero soddisfatta, anche se abbastanza spaventata e ricordo che, affamata e stanca dopo il lungo viaggio, mi fermai a pranzo in una simpatica trattoria: in cui ebbi grande esitazione prima di farmi servire, tra l'altro, una porzione di caciocavallo, che pensavo fosse un formaggio ottenuto dal latte equino! Lo gradii invece moltissimo, ma di lì a poco fui costretta a prendere un autobus per la destinazione "P" in cui sarei rimasta meno di tre mesi: e non mancò infatti il primo impatto assai negativo, in quanto fui costretta a raggiungere il centro abitato percorrendo a piedi, da sola, al buio e con una pesante valigia oltre un km. dalla fermata del pullman. Nulla da eccepire poi per quanto riguarda la buona famiglia presso cui fui ospitata "a pensione", ma con la padrona di casa che, ogni volta che uscivo, mi terrorizzava raccomandandomi in assoluto di non fermarmi per strada neppure a chiedere al postino se fosse arrivata una lettera di mia madre: era cioè assai preoccupata del mio buon nome e della mia reputazione (o piuttosto della sua?); perciò mi divertivo talora ad immaginare l'espressione accigliata e severa del suo viso se avessi potuto dimostrarle tutta la mia disinvolta sicurezza in bicicletta: per quei tempi considerata da vero "maschiaccio"; ma preferisco sorvolare sui diversi altri aspetti negativi di quel breve periodo che mi lasciarono davvero sconcertata e delusa: mi sembrava a volte di vivere in un altro pianeta e maturai così la decisione di "gettare la spugna": mi dispiaceva però di apparire sconfitta così presto e, testardamente, decisi di fare un ulteriore tentativo presso la Prefettura di Campobasso alla ricerca di altri sbocchi e cancellando le mie nerissime previsioni. Fu così che mi segnalarono la disponibilità temporanea anche del comune di Capracotta e la lettera iniziale di questo stranissimo ma simpatico nome, mi suonò paradossalmente come una garanzia di "Cambiamento": non diedi peso perciò a quanto, in perfetta buona fede, il funzionario di turno mi raccontava in merito alla sua terribile stagione invernale ed alla neve che anche in quel mese di febbraio vi era scesa copiosamente. Fu in questo modo che iniziò la svolta più imprevedibile ed importante della mia vita, sia pure essendomi "vaccinata" così negativamente, mio malgrado, contro tutto il Molise; perciò fu inevitabile che io mi dimostrassi, anche a Capracotta, assai prevenuta e molto poco socievole: a cominciare dal mio arrivo in treno alla stazione ferroviaria di San Pietro Avellana in cui fui costretta a sostare a lungo prima della coincidenza di una "corriera" e proprio per la grande quantità di neve. Già temendo un ulteriore e più grande insuccesso, ricordo che osservavo con una certa diffidenza il solo passeggero sceso con me dal treno: che mi tenne invece, molto signorilmente, tanta compagnia mentre io apparivo palesemente sorpresa per la sua alta statura e l'inconsueta mole corporea; si trattava infatti, come appresi in seguito, del notissimo avvocato don Giulio Conti (di cui poi conobbi anche il buffo nomignolo di Giù-Giù) e che, quasi leggendomi nel pensiero, si prodigò in una appassionata "difesa d'ufficio" della neve in cui mi vedevo immersa per la prima volta. Nel periodo iniziale del mio soggiorno a Capracotta, sempre considerandolo del tutto temporaneo, ebbi la fortuna di essere accolta a pensione proprio accanto alla piazza Stanislao Falconi presso la famiglia del compianto Giovanni Borrelli la cui mamma (zia Antonietta) divenne presto la mia migliore confidente; e potrei raccontare tantissimi episodi in cui mi fu di grande conforto e di fondamentale aiuto psicologico: a cominciare dalla prima domenica in cui, ritenendo che l'orario della Santa Messa nella Chiesa Madre fosse alle ore 8:30, la raggiunsi a stento con delle scarpe del tutto inadeguate alla montagna. Ebbi la sorpresa di non vedere nessuno nella bella cattedrale, ad eccezione di due gruppi di uomini avvolti in grandi mantelli a ruota neri che, seduti a semicerchio intorno ad altrettanti bracieri accesi, si alternavano in due cori accompagnati dall'organo nel canto dei Salmi alla Vergine Maria (il cosiddetto Ufficio) e prima della Celebrazione vera e propria. Attirò la mia attenzione uno di loro (si trattava del sig. Giovanni Grifa), che mi invitava con grandi ed affettuosi gesti della mano a raggiungerli: intendeva solo associarmi al loro calore umano prima ancora che a quello dei bracieri di cui avevo parimenti bisogno, ma io scappai via impaurita per rifugiarmi tra le braccia della zia Antonietta, che mi diede spiegazione di tutto, compreso il fatto che lo "zio Giovanni", suo parente, aveva già appreso proprio da lei del mio arrivo in paese. Feci comunque in tempo a tornare sui miei passi ascoltando la Santa Messa alle ore 9: in verità con un po' di rimorso ricevendo di nuovo i saluti, ancora più affettuosi, di quei buonissimi "angeli neri". Negli stessi giorni era stato inevitabile suscitare la curiosità di tante persone a Capracotta; in particolare, essendomi recata spesso in municipio, ebbi occasione di conoscere uno stimato funzionario, amico da sempre del mio futuro marito Ottaviano Trotta: il sig. Michele Ianiro (Giorgétte). Perciò anche sua moglie, la signora Penelope Carnevale, non resistette alla tentazione di chiedergli che cosa si dicesse in giro di me; e la sua schiettissima quanto telegrafica risposta fu: «È come una gatta foresta», cioè è come una "gatta selvatica", e nessuno certamente avrebbe potuto dipingermi meglio in così poche parole; per fortuna, grazie alla incredibile indulgenza dei capracottesi, ebbi modo di demolire abbastanza presto questa mia poco lusinghiera immagine iniziale: anche e soprattutto agli occhi di Penelope e per di più accettando poi la proposta di matrimonio del loro carissimo amico Ottaviano (che avrei sposato nel 1940). Sempre restando a quel periodo, non posso non ricordare il mio stupore per l'arrivo inatteso di mia madre Guglielma; neanche il tempo di farle superare lo shock della neve per dirle, tra l'altro, che non sarebbe stato possibile disporre di carne vaccina perché nel paese veniva utilizzata quasi esclusivamente carne ovina e suina o del pollame; e lei mi tranquillizzò con molta serenità dicendo:
– Se tante persone così amabili sopravvivono agevolmente, non vedo perché noi dovremmo preoccuparci!
Finché, un giorno in cui avevo assistito a ben due parti durante la notte e rientrando spossata a casa, sentii l'odore del brodo in pentola e vidi sul tavolo dei tagliolini all'uovo di sfoglia appena tirata a mano: ne fui lietissima illudendomi che un nipote della sig.ra Antonietta fosse stato incaricato di acquistare della carne vaccina a Campobasso e certa soprattutto di poterne conservare a lungo una certa scorta in un frigorifero naturale come Capracotta; ne trangugiai in un fiato ben due piatti colmi e solo allora mia madre, confessando di avermi tratta in inganno, mi rivelò che avevo appena consumato del brodo di pecora, senza neppure accorgermene e per di più apprezzandone moltissimo il sapore. Ricordo poi che, ancora ospite della famiglia Borrelli, capitò per la prima volta che fossi chiamata ad assistere un parto in una lontana casa colonica in contrada "Masserie di Guastra", allora raggiungibile solo a piedi o a cavallo: ed io non sapevo certo cavalcare ma la zia Antonietta, dimostrando grande lungimiranza, mi convinse a indossare un paio di pantaloni da sci di sua figlia Elena e riuscii perciò a superare lo spavento di appollaiarmi sullo scomodissimo basto per raggiungere quella masseria. Mi commossero poi sinceramente la grande attenzione e la premura nei miei confronti da parte dei congiunti della puerpera (di cui mi spiace non ricordare il nome) e poi la loro gratitudine dopo la nascita di un bel bambino: al punto da farmi dimenticare prestissimo il grosso mal di schiena, dovuto allo sforzo di sorreggermi a cavallo, che inevitabilmente mi accompagnò nei giorni successivi. In definitiva ero orgogliosa di cominciare a sentirmi, sia pure immeritatamente, una "immigrata" molto ben "integrata": eppure riuscivo a comprendere ancora pochissimo dello splendido dialetto capracottese anche se, d'altro canto, mi rendevo conto che nessuno in assoluto riusciva a capire i colloqui in dialetto ferrarese tra me e mia madre. Altrettanto emozionante ed affettuoso è il ricordo del compianto farmacista (allora anche Podestà del Comune) don Costantino Carnevale: ad esempio parlandogli del mio scrupolo di non riuscire talora a mantenere abbastanza sterile quanto occorreva per l'assistenza ai parti ecc.: specie allorquando, inevitabilmente, dal soffitto in travi di legno di molte povere, ma dignitosissime case di allora, cadeva un po' di polvere; e mi sono rimaste impresse le sue parole rassicuranti, forse un po' troppo, che pronunciava in una pericolosa era pre-antibiotici:
– Vedrà che molto difficilmente, qui in montagna e tra i montanari, le capiterà un caso di sepsi puerperale – e posso confermare che, per mia grande fortuna, è stato un buonissimo profeta.
Don Costantino si prodigò anche per rassicurarmi circa l'innocuità della fasciatura molto costrittiva per i neonati (cui non ero assuefatta) e dell'uso, purché sporadico ed oculato, dei succhiotti di tela imbevuti con un po' di zucchero (pupattèlla): tutte cose, lui ribadiva, che facevano parte di una consolidata e antichissima tradizione a Capracotta come le famose culle di legno (sciònne) fatte a mano da bravissimi falegnami e davvero ottimali quanto a stabilità ed efficacia.
Di moltissime altre esperienze relazionali e soprattutto del grandissimo affetto ricevuto a Capracotta ho trattato in alcuni miei precedenti, piccoli documenti: specie in riferimento al tristissimo periodo della distruzione del paese durante l'ultimo conflitto mondiale e ad essi naturalmente rimando per non tediarvi oltre modo e soprattutto per non essere ripetitiva.
Ciò che ho voluto aggiungere in questo racconto è solo per sottolineare ancora una volta e molto sinceramente la differenza tra la pur innocente "povertà socio-culturale" della mia prima sede molisana e l'elevatissimo livello di apertura mentale di Capracotta: beneficiandone poi per circa 22 anni. Non esagero affermando che si trattava davvero di una incredibile disposizione alla "accoglienza" di cui non sono mai riuscita a darmi una spiegazione completa; pur essendo convinta, da "emigrante atipica" qual ero, che il suo segreto fondamentale risiedesse nell'antico e faticoso curriculum di "emigranti tipici" che il popolo di Capracotta aveva dovuto e saputo costruirsi: non è forse assai emblematico il monumento eretto davanti al Santuario della Vergine di Loreto? Ora il mio augurio è che, pur nell'inevitabile mutare dei tempi, questo enorme patrimonio non solo resti come la migliore eredità per le giovani generazioni, ma si accresca diffondendosi a macchia d'olio; ce ne sarebbe ancora, infatti, un bisogno enorme come le tristi cronache attuali di intolleranza e di conflitti dovrebbero rammentare.
Avviandomi così alla mia ultima confidenza, non mi vergogno di confessare che, allorquando nel 1959 mi sono trovata nella necessità assoluta di trasferirmi di nuovo, questa volta a Bojano per le esigenze di studio dei miei figli, ho pianto tantissimo: assai di più e più a lungo di quando ero partita come anomala emigrante Nord-Sud (sia pure con la classica valigia); a proposito, mi piace sperare che si intraveda anche un po' del mio profilo, pur così "atipico", nel volto della giovane donna del monumento appena citato. Se così fosse, ne sarei umilmente lusingata, ma il merito andrebbe tutto a quella profetica "C" di Capracotta: che ringrazio ancora di cuore con un abbraccio per tutti.
Ricordavo che mia madre Cesarina, da molti affettuosamente considerata un autentico personaggio capracottese (di adozione), avrebbe desiderato scrivere altre memorie del suo periodo iniziale nel nostro paese; non essendo poi riuscita a farlo, ho pensato di renderle omaggio, a quattro anni dalla sua scomparsa, riassumendole io fedelmente in questo racconto: ed ho avuto l’ardire di farlo in prima persona come se si trattasse di un suo manoscritto. Sono certo che me lo perdoneranno quanti avranno la bontà di leggerlo. Cesarina Lanzoni Trotta (per tutti "la Levatrice"), tornata stabilmente a Capracotta solo nell'ultimo periodo del suo percorso terreno, vi è deceduta serenamente all'età di 98 anni nella sua abitazione di via Nicola Falconi il giorno 7 luglio 2010; ed ora riposa accanto al marito Ottaviano nel nostro Cimitero (all'ombra di Monte Campo, come le piaceva ripetere). Requiescat in pace.
Aldo Trotta
Fonte: A. Trotta, Cesarina "la levatrice": confidenze (postume) di una giovane emigrante a Capracotta, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.