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Cicche Muorte e la tanatosi


Tanatosi

La tanatosi è uno spettacolare stratagemma a cui ricorrono molti animali quando l'aggressore ha precluso loro ogni possibilità di fuga. Alcuni predatori, di fronte ad una preda morta, ricevono segnali che istintivamente inibiscono la propria aggressività offrendo in tal modo ai finti morti una possibilità di sopravvivenza.

Allo stesso stratagemma fece ricorso un gigante di Capracotta, Francesco Sozio, che ne sapeva una più del diavolo!

È una storia tutta da raccontare e da gustare. Un giorno, Mario Sozio chiese al nonno Ciano (Sebastiano Sozio) perché il soprannome della loro famiglia fosse Cìcche Muórte.

Mario Sozio ricorda così il racconto dell'avo:

– Nipote mio, devi sapere che i soprannomi non nascono per caso ma sono sempre legati a qualcosa o qualcuno: il soprannome della nostra numerosa famiglia ricorda una bella storia, allo stesso tempo quasi tragica e comica.

Mio padre Francesco nacque a Capracotta il 15 luglio 1818; era un gigante e i suoi geni lo avevano dotato di un misto di forza, di prepotenza e di astuzia.

Era forse uno dei più forti capracottesi del suo tempo e appena cresciuto fu messo subito a lavorare.

Di mestiere faceva il vaccaro e non si sa se qualche volta aveva osservato che certe bisce, presenti anche nei nostri pascoli, per sfuggire ad un pericolo si fingono morte. Non so nemmeno se pascolava le sue mucche o quelle di altri. L'episodio che generò il soprannome Cìcche Muórte avvenne intorno al 1840, ed è rimasto legato alla storia della nostra famiglia e dell'intera comunità.

Di solito mio padre, chiamato da tutti Cicche, portava a pascolare le mucche nella zona limitrofa alla masseria de Cambaniéglie (Campanelli) sotto a re Retiàglie (sotto il dirupo) verso la valle del Sangro. Anche altri pastori di Capracotta e di Castel del Giudice usufruivano della stessa zona di pascolo e poiché i confini comunali all'epoca erano molto approssimativi, spesso si innescavano astiose discussioni sul diritto di pascolo, che quasi sempre sfociavano in scazzottate; logicamente mio padre le dava e difficilmente le prendeva.

I pastori avversari, a furia di prenderle sia quando erano sui pascoli di Castel del Giudice che quando sconfinavano sui pascoli di Capracotta, decisero che dovevano liberarsi, una volta per tutte, di quel gigante e gli tesero un agguato per ucciderlo. E così un bel giorno si riunirono in quindici e lo sorpresero in compagnia di 4 amici capracottesi.

Uagliù nen ve 'mbauréte – disse Cìcche ai suoi compaesani, – pegliàtene une pe d'une cà all'ieàrre ce pènze ì! (ragazzi non vi preoccupate, prendetene uno a testa perché agli altri ci penso io!).

Te lo immagini che spettacolo era quando lottava?

E poi teneva una parròcca (bastone del pastore) lunga e pesante che solo lui poteva manovrare: quando la faceva roteare metteva veramente paura! Ma alla prima schermaglia gli amici capracottesi se la diedero a gambe levate e lo lasciarono solo: le dette ma ne ricevette tante e, a un certo momento, prima di essere completamente sopraffatto si finse morto stecchito! I pastori avversari non infierirono più di tanto sul presunto cadavere: lo abbandonarono e si allontanarono soddisfatti.

Tornarono, dopo qualche tempo ed a pericolo passato, gli amici capracottesi che erano fuggiti: mio padre, però, li vide arrivare e volle punirli continuando a fare il morto.

Madonna, z'è muórte Cìcche... e mó ch'éma fà? (Madonna, Francesco è morto... e adesso che facciamo?) – si chiedevano ad alta voce.

Non potevano certo lasciarlo lì e decisero di trasportare il cadavere a Capracotta.

Recuperarono una scala a pioli abbandonata in un vecchio casolare disabitato e lo stesero, legandolo ben bene, sopra quella improvvisata barella: lo portarono a spalla e, piano piano, si diressero verso Capracotta. Lungo il percorso ogni tanto si fermavano e tra le lacrime ripetevano come una nenia:

Cìcche z'é muórte, Cìcche muórte! (Francesco è morto, Francesco morto!).

Fecero una fatica immane e, dopo qualche ora, finalmente giunsero alla periferia di Capracotta e si fermarono alle prime case del quartiere di San Giovanni. E, sempre con la scala a spalla, si interrogarono:

Ch'éma fà, re purtàme a la casa o a re cuambesànde? (Che dobbiamo fare, lo portiamo a casa sua o direttamente al cimitero?)

E, mentre stavano decidendo, Cìcche all'improvviso smise di fingere ed esclamò: – Lassàteme ascégne ch'àie arrevieàte! (Lasciatemi scendere ché sono arrivato!).

E così, da allora, Francesco il gigante, forte e astuto, fu soprannominato Cìcche Muórte (Francesco Morto): nomignolo trasmesso poi a tutti noi suoi discendenti.

La storia non ci ha tramandato come la presero i pastori di Castel del Giudice quando se lo ritrovarono davanti, per la prima volta, dopo averlo... ucciso!

Il gigante morto e resuscitato continuò a picchiare ancora e sempre più forte.


Domenico Di Nucci

 

Fonte: D. Di Nucci, Cicche Muorte e la tanatosi, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.

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