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Come una favola


SIV San Salvo
Il 19 marzo 1983 papa Giovanni Paolo II visita la SIV di San Salvo (CH).

Il fuoco, la sabbia, il vetro.

Conosco da lontano la storia della SIV e di San Salvo. Ne avevo sentito dire perché nel paese dell'Alto Molise dove sono nato, quando ci tornavo, riprendendo conto di chi era partito, mi sentivo rispondere «lavora a San Salvo», «lavora alla SIV», «si è trasferito a San Salvo», «ha comprato casa a San Salvo». Ascoltavo distrattamente. Non capivo bene se era Abruzzo o Molise. Sembrava fosse Molise. E all'inizio mi ero fatto l'idea di un fuoco fatuo, che si sarebbe presto spento. Una emigrazione ravvicinata. Come di chi non ce la fa ad andare troppo lontano.

Ma il fuoco non si spegneva. Anzi sembrava prendere piede. A San Salvo e alla SIV si aggiungeva Termoli e la FIAT.

Nel Molise la divisione tra Alto e Basso era diventata, negli anni Sessanta, divisione tra allevamento e agricoltura. Fino agli anni Sessanta del Novecento, per millenni, i nuclei di case erano costretti all'autarchia. Dovevano intanto disporre di acqua e di fuoco. Poi dovevano poter produrre, nel raggio del loro territorio, le cose essenziali: lana e pelli per i vestiti, grano per il pane, latte per i formaggi, carne per sé, non solo per orsi e lupi.

Ma con le prime macchine la divisione del lavoro poteva diventare "regionale" e così l'allevamento era diventato appannaggio delle montagne e l'agricoltura era propria dei terreni collinosi e in piano, scendendo al mare.

Ma tra Alto e Basso una tradizione continuava a mantenersi: d'inverno vacche e pecore scendevano al mare, d'estate salivano o risalivano in montagna.

Ma le macchine prendevano piede anche in montagna. Alle trebbiatrici si aggiungevano le falciatrici. Non erano più i cavalli che sulle are staccavano il grano dalle spighe. Non erano più i falciatori a falciare l'erba con i "falcioni", né i mietitori a mietere il grano con le roncole. Si diceva che i trattori e le macchine erano il nuovo, continuo, inarrestabile, "raccolto" delle fabbriche.

Sembrava una favola, lì in montagna, ma i trattori e le macchine arrivavano anche lì e il paesaggio cambiava e l'autarchia cedeva alla divisione del lavoro. In alto i pascoli rubavano spazio ai campi di grano e alle altre colture, il verde rubava spazio al giallo, in basso le colture rubavano spazio ai pascoli, ai boschi, ai luoghi incolti e coloravano il paesaggio.

Ma fin a quel punto le macchine e i vetri, potevano anche arrivare da un altro mondo, per chi viveva da quelle parti. Nella fantasia di allevatori e agricoltori potevano continuare ad essere strane diavolerie, che certo "davano una mano" ma venivano da chissà dove. Solo che quando lì sotto gli occhi, la misura dei "luoghi di produzione" eccedeva le misure consuete, quando enormi costruzioni e torri si vedevano da lontano e non erano paesi o chiese o campanili, quando a certe ore masse di uomini, come mandrie di pecore o di vacche, si raccoglievano per entrare in quei luoghi o si disperdevano uscendo da quei luoghi, e anzi lo spettacolo si ripeteva ogni giorno e sembrava che quei luoghi non avessero pace, perché si vedevano luci e bagliori anche di notte, beh, allora non era più faccenda di racconti, di favole, qualcosa era davvero cambiato.

Anzi, alcuni provavano ad entrarci in quei luoghi, "a farsi assumere alla SIV". E se riuscivano ad entrare il loro sconcerto era grande. Lo stesso di quelli a cui lo raccontavano: «Lì dentro dalla sabbia, col fuoco, si ricava una strana pasta, un po' come dal latte si ricava la pasta per fare mozzarelle, scamorze e caciocavalli. Anche lì la pasta si tira, si stende, ma, cosa miracolosa, diventa trasparente, diventa vetro, e poi finisce per avere la forma di lastre utili, per le case o per le macchine».

Per la cultura millenaria di agricoltori e allevatori di quelle zone dell'Italia l'impatto di una fabbrica di quella natura e di quelle dimensioni può essere paragonato al fuoco mitico che Prometeo ruba agli dei per darlo agli uomini.

Sì, si sapeva che da quelle parti era stato trovato il metano, la "materia prima" del fuoco, di sabbia ce n'era sempre stata in abbondanza, abbondante e inutile. Che l'acqua non mancasse, tra Trigno e Sangro, non era una novità, acqua chiara, trasparente, che fa pensare certo al vetro. Ma che tutto si potesse combinare, e prendere forma e produrre qualcosa di utile, beh, questo doveva essere il dono di un dio o di Dio.

E il vicario di Cristo arrivò dal cielo, con un elicottero e si incaricò di confermarlo. Non c'era solo Torino e Terni e Taranto, i luoghi nei quali i forni di Vulcano erano stati riaperti, c'era anche San Salvo.

Niente fu più come prima. La dura disciplina del lavoro spesso solitario del contadino diventava lavoro di squadra. I "raccolti" non avevano la lentezza e l'imprevedibilità delle stagioni. Le produzioni si chiudevano rapidamente, giorno per giorno. C'era, adesso l'imprevedibilità dei mercati e alla tradizione delle buone pratiche di lavoro si doveva coniugare la capacità e il coraggio di innovare, di cambiare gli strumenti, i processi, i prodotti. Al destino, alle disgrazie, alla fatalità della cultura contadina, si sostituiva il rischio, il coraggio, la responsabilità della cultura industriale.

Ma non si può rimirare se stessi in quelle superfici trasparenti come l'acqua del Trigno eppure resistenti. Occorre ripetere il miracolo in altri luoghi sconosciuti, occorre accettare le regole dei cambiamenti di proprietà. Ma si può conservare la durezza, la chiarezza e la trasparenza delle origini.


Francesco Paolo Di Nucci

 

Fonte: F. P. Di Nucci, Come una favola, in U. Marrami, Dalla povertà ad una buona vita. Una storia della gente d'Abruzzo, Gangemi, Roma 2015.

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