Basse casette di legno e pietra, greggi di pecore a perdita d'occhio, rimbombo di passi sul selciato a rincorrere pennacchi di fumo dai camini. Se per caso desideraste immergervi in un'atmosfera di questo tipo, così lontana da quella nella quale siamo costretti a vivere quotidianamente, dovreste imboccare la tortuosa strada che da Vasto si arrampica verso Isernia, facendo quasi da confine naturale tra la Maiella abruzzese e le montagne del Molise. Magari potreste fermarvi ai piedi del Monte Capraro e gustarvi un piatto di cavatelli al ragù e formaggio caprino nel paesino di Capracotta.
Se così appare oggi, immaginatevi come doveva essere ruspante e selvaggia questa zona nel 1200!
Proprio in questa terra, aspra ma fascinosa e molto spesso dimenticata da Dio, nacque Pietro da Morrone, futuro papa Celestino V°. Secondo alcune testimonianze storiche erano all'incirca gli anni nei quali Francesco d'Assisi stava concludendo la sua vita. Pietro era uno dei molti rampolli di Angelerio e di Maria, due piccoli proprietari di poca terra, alcune greggi e molti pidocchi, che avevano bisogno di numerose braccia per tirare avanti la baracca e addolcire la quotidiana miseria. Fin da piccolo però Pietro si era dimostrato un po' stravagante, bizzarro, solitario e soprattutto sfaticato, tanto da attirare spesso le ire dei fratelli che lo chiamavano "fannullone piscialletto" (quest'ultimo epiteto era dovuto ad un suo piccolo difetto, indotto dalle frequenti estasi mistiche che lo colpivano fin dalla più tenera età).
Di fronte al caparbio carattere del fanciullo, che sosteneva di essere destinato per volontà divina a studi teologici, la famiglia non sapeva più cosa fare se non sostenere che i soldi si fanno solo lavorando, quindi "niente sudore, niente scuola" (anticipando di secoli lo slogan "no Martini, no party!"). Fu così che nessuno della famiglia si disperò più di tanto quando Pietro, ormai quasi ventenne, fuggì dal suo villaggio, deciso a non fare più ritorno. Salì faticosamente le pendici del monte Palleno alla ricerca di una grotta-monolocale abbastanza ampia per accogliere la sua scarna persona, ma avendole trovate tutte occupate dai seguaci del famoso eremita Flaviano da Fossanova, fu costretto a lavorare per la prima volta in vita sua, scavandosi con le sue stesse mani una caverna nella roccia. Qui, sempre tormentato da dubbi e ossessionato da orripilanti visioni, trascorse tre lunghi anni di meditazioni e preghiere. La presenza su quei monti di Pietro cominciava a emanare odore di santità oltre che di altri aromi non proprio gradevoli (dopo tre anni che non si lavava!) e cominciava ad attirare sempre più pellegrini in cerca di miracoli gratuiti o con basso esborso di obolo, vista la miseria imperante da quelle parti. Ma il sant'uomo era infastidito da quelle rumorose presenze che interrompevano continuamente il suo dialogo con il Signore e perciò decise di fare una vita che attirasse meno l'attenzione popolare. Perciò decise di recarsi a Roma per studiare da sacerdote e apparire un po' più normale agli occhi della gente. Conseguiti i Voti, naturalmente con il massimo dei voti, tornò a vivere in una spelonca ai piedi del monte Morrone (dal quale volle prendere il nome, che di suo voleva il meno possibile). Là Pietro, uomo taciturno e riservato, sperava di condurre la sua vita in contatto con Dio e in attesa di ricongiungersi a lui puro e candido come un neonato. Ma presto fu di nuovo assediato da una rumorosa folla di centinaia di giovani attratti dalla sua crescente fama di santità e vogliosi di condividere con lui le sofferenze e le privazioni della vita eremitica. Però il sant'uomo riteneva che Francesco d'Assisi fosse un esempio poco adatto da seguire, perché per povero era povero, ma non abbastanza per lui, in quanto il poverello non aveva rinunciato alle gioie dei contatti umani, con gli animali e con la natura (come testimoniava il suo "Cantico delle creature"). Perciò iniziò a fuggire dai seguaci cominciando una instancabile ricerca di spelonche inaccessibili sulle vette delle vicine montagne della Maiella (a qualche ingenuo o miscredente potrebbe venire a mente la continua migrazione di grotta in grotta di Bin Laden sui monti dell'Afganistan…). Ma dovunque si fermasse, finalmente convinto di essere solo con Dio, lo raggiungevano folle di poveri, infermi, disperati in cerca di conforto e guarigioni. Fuggendo e pregando Pietro era arrivato ai suoi sessanta anni senza riuscire a realizzare il suo sogno di solitaria santità. Dovette prendere atto che i suoi seguaci si erano ormai organizzati in congregazioni stabili che, come succedeva spesso in quei tempi, non erano ben viste dalle potenti e ricche gerarchie ecclesiastiche per il loro integralismo, il richiamo alla povertà e ai valori del cristianesimo primitivo. Erano in odore di eresia, forse di condanna al carcere o peggio… Fu allora, nel 1293, che decise per la prima volta in vita sua di farsi gli affari degli altri (i suoi poveri seguaci) e di recarsi a piedi a Lione dove il Papa Gregorio X stava tenendo un Concilio proprio per elencare e condannare le sette ereticali. Sospinto e sorretto dall'appoggio divino riuscì a far escludere i suoi seguaci dai sospetti di eresia e addirittura a far riconoscere ufficialmente la sua Congregazione dal Papa. Tornato alla sua spelonca, sempre rigorosamente a piedi, dette la bella notizia ai suoi discepoli e annunciò che sentendosi vicino alla fine dei suoi giorni terreni, sarebbe andato ad aspettare il ricongiungimento a Dio nella sua grotta sul monte Morrone. E che nessuno si azzardasse a seguirlo! E là, felice, sereno, visse in assoluto isolamento per tredici mesi, ignorando che la Storia, quella con la S maiuscola, era in agguato, pronta a guastargli i piani e a metterlo nei guai. Da qualche mese era morto il Papa. Il Conclave, formato da soli undici cardinali, era andato avanti in estenuanti discussioni e votazioni per mesi, senza raggiungere un accordo. Infatti alcuni di loro erano seguaci della potente famiglia Orsini, altri della famiglia Colonna e poi c'era da accontentare anche i desideri di re Carlo d'Angiò, che voleva un Papa che l'aiutasse a riprendersi la Sicilia. Così i mesi erano passati e per paura di una pestilenza (che a quei tempi era frequente e puntuale come un film dei Vanzina oggi) si trasferirono a Perugia, dove l'aria sembrava più salubre. Ne erano passati tanti di mesi, ventisette per la precisione storica, e non si vedeva soluzione. Fu allora che Carlo d'Angiò mandò un suo emissario alla ricerca di Pietro per comunicargli la situazione disastrosa per la sua amata sposa (così il santo eremita chiamava la Chiesa) e per chiedergli un suo intervento, almeno scritto, sperando che le sante parole facessero il miracolo. E lo sventurato rispose (frase ad effetto clonata da un certo Alessandro Manzoni che ha lasciato qualcosa in Arno). Sollecitò, in nome di Dio, la fine della vedovanza della Sposa di Cristo e minacciò sventure (con parole riprese più tardi da Savonarola e da Bertinotti) se non avessero messo immediatamente rimedio alla situazione. I Cardinali, impauriti e incapaci di trovare altre soluzioni, pensarono che quel vecchio santo, con bassa aspettativa di vita vista l'età e gli acciacchi, sarebbe stato l'ideale per chiudere la questione in modo interlocutorio per tutti, in attesa a breve scadenza di tempi migliori. Perciò lo mandarono a prendere di peso nel povero eremo e, trasportatolo a Roma, tra lo stupore suo e di tutto il popolo, lo elessero Papa col nome di Celestino V. Ma non sempre le marionette obbediscono ai comandi dei burattinai e ben presto la vittima Pietro-Celestino sfuggì dalle mani dei potenti elettori. Sequestrato dal re Angioino e portato a Napoli, circondato da faccendieri, questuanti, trafficanti di ogni genere (che spesso utilizzavano le bolle papali con il suo nome per fare soldi a palate, che più tardi ispireranno il paroliere della canzone "Le mille bolle blu") anche se stanco e provato dalla sua vita di stenti e privazioni riuscì a trovare il coraggio e la forza per opporsi fermamente a quello scempio. E con la forza di un guerriero in armi impose in nome di Dio ai suoi cardinali allibiti la sua rinuncia al papato e il suo ritorno all'eremitaggio! Dante, che da buon passionario politico fiorentino, di obiettivo aveva poco , lo sistemerà per questo tra gli ignavi nell'antinferno, bollando il suo gesto come "viltade". In realtà Alighieri era un sostenitore del re angioino e avrebbe desiderato che Celestino seguisse i suoi piani politici. Povero Celestino! Calunniato e offeso in vita e dai posteri, dopo soli dodici giorni dalla sua clamorosa rinuncia dovette assistere alla velocissima elezione del corrotto cardinale Caetani che prese il nome di Bonifacio VIII (che Dante questa volta giustamente metterà nell'inferno vero). Uno dei primi atti del nuovo Papa fu quello di ordinare l'arresto del sant'uomo, che tentò di fuggire verso la Grecia ma, respinto a terra da una mareggiata (i disegni divini sono a volte davvero poco comprensibili!) venne arrestato vicino a Vieste e trasportato nell'orrenda torre di Castel Fumone, nei pressi della residenza papale di Anagni. Nonostante la detenzione durissima la sua bell'anima resistette ancora trecentodiciannove giorni prima di abbandonare l'aborrita carcassa di carne ed ossa e unirsi finalmente a Dio. Era sabato 19 maggio 1296. Fin da subito si sospettò un ruolo attivo di Bonifacio nell'aiutare il santo a realizzare questa dipartita, ma fu solo dopo dei secoli che un suo biografo, Lelio Marini, cercherà di dimostrare che Pietro era stato barbaramente ucciso in cella per ordine del Papa. Quella vicenda (e non solo quella, penserà qualche maligno) rimarrà per sempre irrisolta perché Bonifacio VIII fece ordinare il divieto assoluto di eseguire autopsie sui corpi dei pontefici (passati, presenti e futuri) per non fare scempio e sacrilegio del corpo stesso di Cristo in loro incarnato.
Amen.
King Arthur
Fonte: http://www.liberodiscrivere.it/, 18 aprile 2005.