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La cultura contadina


Castel del Giudice
Il trasporto della legna a Castel del Giudice.

Il primo impatto con il duro lavoro nei campi lo ebbi all'età di 6-7 anni, era il periodo della mietitura e per la prima volta andai con i miei in contrada Malvone. Mi spiegarono che i grandi non potevano perdere tempo in lavori come la raccolta delle spighe di grano e quindi era giusto che i bambini si rendessero utili (adesso si chiamerebbe lavoro minorile). Le spighe, infatti, non bisognava lasciarle sul campo perché sarebbe stato uno spreco e perché "era peccato" poiché il grano, come il pane, era sacro e non bisognava sprecarlo. Così scoprii quale era la prima mansione per un ragazzo: raccogliere le spighe dopo che i grandi avevano mietuto e "legato" i covoni. Ricordo ancora di come mi sentivo importante perché avevo contribuito a procurare il grano per fare il pane e le sagne. Era un lavoro che facevo volentieri senza sapere cosa mi aspettava negli anni successivi. C'era infatti una rigida divisione del lavoro in cui gli uomini si occupavano di tutto ciò che atteneva i lavori più pesanti come l'aratura ed erpicatura del terreno seminato a cereali, patate e granturco, grano per assicurare i carboidrati per tutto l'anno, ma anche orzo e farro, fave, avena e soprattutto il fieno, che servivano per il mantenimento del bestiame. Il bestiame era importante sia come ausilio nel lavoro che per la produzione di latte e carne, anche se quasi tutta la carne la mangiavano re segnùre perché vitelli, agnelli e capretti si vendevano ed il ricavato veniva utilizzato per provvedere alle varie spese che si facevano nel corso dell'anno e bisognava stare attenti perché a volte neanche bastavano e se moriva un vitello era considerata una disgrazia per la famiglia. Ogni animale aveva un nome proprio sia se si trattasse di una vacca che di un animale da soma, i nomignoli erano di solito diminutivi molto fantasiosi: Quagliarella, Ruscetta, Bianchina, Rumanella; tra i muli il nome più comune era Barone, forse per vendicarsi di antiche angherie. C'erano numerose fiere nella zona in cui si andava per vendere o comprare animali. Le più aspettate erano Tutti i Santi e la Maddalena a Castel di Sangro e l'8 settembre a Capracotta, ma si arrivava fino a Sulmona o Isernia per comprare un mulo o una vacca, all'otte settiémbre di Capracotta si compravano soprattutto maiali. Ricordo particolarmente la fiera dei Santi dalla quale era d'obbligo per gli uomini tornare con le castagne e con i cachi, frutta classica del tardo autunno ed occasione soprattutto per i ragazzi per assaggiare frutti non coltivati nella nostra zona. La frutta si mangiava in poche altre occasioni, una era quella della raccolta delle patate. All'epoca le patate si scambiavano con fichi, uva, pesche, con ambulanti provenienti dal basso Sangro a cagna patàne dicevamo, ed era la gioia dei ragazzi.

Lunghe attese ai bordi della strada per aspettare ru carrozzìne ed effettuare lo scambio di merci. Si diventava uomini molto presto, all'età di 10-11 anni, perché un ragazzo rappresentava un'energia fresca aggiuntiva ed a volte sostitutiva di quella di una persona anziana non più in condizioni di fare il lavoro duro. Pur nell'inevitabile assegnazione a lavori più leggeri e meno importanti e poi infine all'inattività, c'era un sacro rispetto per le persone anziane che erano considerate sagge ed alle quali si ricorreva sempre per qualche consiglio. I lavori più delicati, come la sarchiatura e la quasi intera coltivazione degli ortaggi insieme a tutti i lavori domestici, erano affidati alle donne che si occupavano anche di lavori di cucitura e della filatura della lana.

Con la lana poi si lavorava ai ferri ottenendo calze e maglie che le donne anziane raccomandavano di portare anche d'estate pecché assùchene ru sudóre, ma più che avere la funzione di asciugare il sudore, soprattutto le maglie di lana a righe, erano delle vere e proprie camicie di forza di cui ci sbarazzavamo al primo sole di primavera. Le donne avevano anche il compito di preparare e portare il pasto agli uomini che si recavano al mattino presto in campagna e come contenitore venivano usati cesti che si portavano sulla testa; per attutire il dolore provocato dal peso si usava uno strofinaccio arrotolato: la spara. Di norma si trattava di una colazione che si faceva con gli ingredienti che di solito si usano per un pranzo: infatti si mangiava pasta asciutta oppure polenta o minestre, non c'erano piatti e si mangiava tutti nello stesso recipiente. La mietitura invece riguardava tutti perché bisognava fare in fretta per sottrarre il grano maturo alle furie della grandine o di altre calamità naturali. A proposito vale ricordare che quando si avvicinava una tempesta minacciosa, nel periodo del grano maturo, si correva a suonare ru cambanóne perché si sosteneva che le onde sonore della grossa campana frantumassero la compattezza della nuvola carica di grandine. I covoni venivano ammucchiati per essere poi trasportati con muli alla più vicina aia dove fino ai primi anni 50 si slegavano e si trebbiava facendo passare più volte un equino sui mucchi dei covoni fino a che i chicchi non si separavano completamente dalla parte leggera e dalla paglia, chi non aveva animali batteva il grano con i forconi.

Le aie, alcune delle quali sono ancora visibili, erano situate in punti alti ed esposte ai venti perché questa lavorazione di separazione - detta scamà - si faceva con l'ausilio del vento. Esisteva anche una approssimativa rosa dei venti per indicarne la direzione.

Arrivarono poi le prime trebbiatrici semiautomatiche, che furono una vera e propria rivoluzione per l'agricoltura, ma rimase parzialmente in vigore, per molti anni, il sistema antico perché la farra, cioè il farro, si raccoglieva troppo tardi e la trebbiatrice nel frattempo era partita per altre zone a maggiore altitudine. In questo contesto si realizzò una delle prime cooperative con l'acquisto di una trebbiatrice, ma di questo parleremo in un altro capitolo. Nel periodo strettamente invernale, che veniva considerato mal tiémbe vero e proprio, le poche giornate che si recuperavano venivano utilizzate per pulire le stalle dal letame e portarlo nei campi da seminare, oppure per procurarsi legna da ardere o altri lavori di recupero e di risistemazione di attrezzature agricole. I lavori erano equamente distribuiti durante tutto l'anno, dalle arature a maiésa, alla semina, alla falciatura, alla mietitura ed alla raccolta in genere. La maiésa era un sistema di aratura profondo che di solito si faceva prima dell'estate e si lasciavano consumare le zolle dal sole e dalle piogge estive. In questo caso si chiamava maiésa a sòle, ma si arava anche dopo la mietitura lasciando il compito di consumare le zolle alla neve. Per eseguire questo tipo di lavorazione, chi non aveva le vacche da utilizzare si rivolgeva a qualcuno che lo faceva di professione ualàne, oppure la faceva manualmente usando ru pedènde. Con l'arrivo dei primi trattori, arando più a fondo, vennero alla luce terreni non sfruttati fino ad allora e di conseguenza più fertili per alcuni anni. Il lavoro più pesante arrivava con la falciatura e la raccolta dei cereali che metteva a dura prova la salute di tutta la comunità. Per la falciatura si usava la falgia mentre per la mietitura la falgìglia, entrambe dovevano essere ben affilate e per questo si affilavano usando un martello con una benna ed una specie di incudine che si piantava a terra. Questa operazione si chiamava arrenduccuruà, in pratica con una percussione sul taglio si stirava l'acciaio delle falci rendendolo più affilato e con denti di sega molto irregolari che le rendevano taglienti. L'approvvigionamento del fieno, falciatura, essiccazione al sole, legatura con reti per ridurne il volume e trasporto richiedevano un lavoro molto impegnativo. Una volta pieno il pagliaio, si provvedeva ad ammucchiare il fieno rimanente, nel campo, in grossi mucchi attorno ad una pertica detti sctiglie, poi d'inverno, a tempo perso, si provvedeva a riempire di nuovo il pagliaio che nel frattempo si era quasi svuotato trasportando il fieno stipato in 1 o 2 scteglière, qualcuno usava anche locali delle masserie come fienile temporaneo.

Per una famiglia media che possedeva 2-3 vacche, un mulo e qualche capra o pecora la campagna del fieno richiedeva circa un mese, solitamente dal 10 giugno all'Immacolata che si festeggia ancora la prima domenica di luglio insieme a S. Nicola, festeggiato di solito il giorno dopo, e rappresentava l'unica festa comandata di riposo prima di passare alla mietitura dell'orzo e poi del grano. Le operazioni di raccolta dei cereali e del trasporto dei covoni si protraevano per tutto il mese di luglio ed i primi di agosto e questo periodo era considerato il più importante dell'anno. Una famiglia media di 4 persone coltivava 4-6 tomoli a grano ricavandone 15-20 quintali, 2-3 tomoli di altri cereali per alimentare il bestiame tra cui vitelli e maiali, 1-2 tomoli adibiti alla coltivazione di patate, granturco ed altro. Le colture, in quasi totale assenza di concimi salvo il letame prodotto dalle proprie bestie, seguivano una rigida rotazione ed occorreva possedere almeno 10 tomoli di terra per sopravvivere. La produttività dei terreni e del lavoro era molto bassa e non competitiva per tutta una serie di ragioni. L'altra caratteristica negativa era la frantumazione della proprietà dei terreni in piccole particelle, frutto di più divisioni e frazionamenti passati tra vari eredi, la cui dislocazione obbligava a lunghi spostamenti per raggiungerli, o per passare da una contrada all'altra, con conseguente perdita di tempo che veniva sottratto al lavoro. Questa frantumazione è sopravvissuta fino ad oggi ed è quasi impossibile convincere un castellano a scambiare qualche terreno per favorire il riaccorpamento delle proprietà. Non tutte le famiglie possedevano 10 tomoli di terra ed i più sfortunati ricorrevano ad affitti molto onerosi e pagati in natura, con una parte del raccolto stabilita di volta in volta, oppure andavano a lavorare a giornata. I più fortunati avevano, oltre ai terreni a sufficienza per sopravvivere, almeno due vacche ed un mulo. Questi animali rappresentavano un valido mezzo di trazione per aratura, erpicatura ecc. Chi non aveva questo minimo era sottoposto ad una vita più dura perché doveva lavorare, oltre che per sé e la propria famiglia, per sopperire alla mancanza di terreni ed animali pagando in giornate di lavoro.

Le vacche da latte arrivarono negli anni 60, nel periodo precedente le vacche servivano soprattutto perché si potevano utilizzare per l'aratura ed altri lavori. Il sistema di misura dei terreni corrispondeva ad un sistema di misura del grano: un tomolo di terra equivaleva ad un tomolo di grano, ossia la quantità di grano occorrente per seminare un tomolo di terra. Il tomolo (tumbre) era l'unità di misura del terreno, mentre per il grano l'unità era ru mezzìtte che era anche un recipiente in legno tarato alla misura giusta. La salma era anche l’indicazione del carico che un mulo poteva trasportare e corrispondeva a circa 1,5 quintali per cereali, patate, legna, ma più genericamente il termine veniva utilizzato per indicare misura di un carico di qualsiasi merce. I terreni, salvo eccezioni, erano equamente divisi tra coltivazioni e pascoli arborati; più raramente si possedevano boschi e in quelli demaniali vi era il divieto assoluto di raccogliere legna, neanche quella secca. Ci sarebbe da scrivere un intero capitolo per testimoniare l'accanimento della forestale e dei guardaboschi nei confronti dei poveracci che si azzardavano a raccogliere qualche fascio di céppe o a tagliare una pianta secca, nelle aree demaniali, per scaldare i propri figli. Le piante si abbattevano con l'accetta, ma con il rientro dei primi emigranti dagli USA era arrivata una sega a due impugnature che chiamavamo ru sctuócche, anche con questo utensile "moderno" si impiegavano giornate intere per abbattere una grossa pianta. Ricordo di aver impiegato una giornata intera per abbattere, insieme ai miei, una grossa pianta di cerro in località Cannella. La fascia di terreni di più valore, e cioè più vicina al paese, era adibita quasi interamente a scopi agricoli, ma chi non aveva terreni in questa fascia era costretto a lavorare terreni lontani, situati nella parte dove c'erano i pascoli. Ne nascevano conflitti senza fine perché di solito si praticava l'alpeggio lasciando da maggio a novembre le vacche nelle zone più alte del territorio. Insieme alle vacche, lasciate la notte nei pascoli alti, c'era l'abitudine di lasciare una mula perché le femmine di questi equini affrontano i lupi a suon di calci proteggendo gli altri animali e soprattutto vitelli e puledri che sono facile preda. Le vacche di notte invadevano i campi coltivati creando danni e liti che il più delle volte finivano sul tavolo del Pretore. I fatti si svolgevano in una atmosfera siloniana dove i pochi soldi che si avevano finivano nelle tasche di avvocati che imbastivano cause sul fatto che una vacca aveva invaso un terreno perché doveva attraversarlo per andare ad abbeverarsi oppure lo aveva fatto volontariamente e quindi c'era colpa! Non era raro sentire la classica espressione: "te manne a Crapacòtte", Capracotta era sede appunto della Pretura. Ricordo ancora la disperazione che ci assaliva quando una vacca eludeva il controllo e si dirigeva verso un campo coltivato, soprattutto a granturco, perché ne sono molto ghiotte e ne sentono l'odore a grandi distanze. Dopo le trebbiatrici, sempre più sofisticate, arrivarono i trattori cingolati e poi le falciatrici e le mietilega, le motoseghe, autentiche meraviglie della tecnologia che fecero scoprire quanto poco produttivo fosse il lavoro praticato fino a quel momento e come la pratica dell'autosufficienza appartenesse al passato, all'epoca cioè dove per sopravvivere un contadino doveva produrre quasi tutto quello che occorreva alla famiglia per cui anche le colture meno produttive per le caratteristiche dei nostri terreni venivano praticate per ricavarne quel minimo necessario alla sopravvivenza. Ad esempio, per falciare un tomolo di terra ci voleva una giornata prestata da un uomo in forze, poco più di mezz'ora per una moderna falciatrice. Il lavoro di una giornata di un boscaiolo poteva essere sostituito da 15 minuti di motosega. Il problema era che non c'erano i soldi per comprare le attrezzature agricole e solo qualcuno più facoltoso ci riusciva, all'epoca non c'erano contributi statali per le macchine agricole, quantomeno per le piccolissime aziende agricole che caratterizzavano l'Alto Molise. Quasi tutte le famiglie vivevano esclusivamente di agricoltura e piccoli allevamenti, pochi erano gli artigiani , una diecina in tutto, 5-6 gli esercizi commerciali tra cui 2 cantine. Le case erano state rattoppate recuperando le macerie lasciate dai tedeschi che la sera dell'8 novembre del '43, come vedremo in un altro capitolo, diedero alle fiamme il paese distruggendolo quasi totalmente. Quasi ovunque al piano terra alloggiavano maiali galline ed a volte anche pecore e capre, mentre il piano superiore era adibito ad abitazione, il riscaldamento nei rigidi inverni si limitava a quel poco di calore che può dare un focolare nelle ore diurne. Sì, perché la sera il fuoco veniva spento e qualche tizzone che era sopravvissuto veniva coperto dalla cenere abbelàte e serviva al mattino dopo per riaccendere il fuoco. I servizi igienici, quando c'erano, si limitavano ad un buco che accedeva direttamente alla fogna, l'acqua si andava a prendere con le conche alle fontane pubbliche perché nelle case, almeno nel primo dopoguerra, non c'era l'acqua. Le giovani donne andavano a lavare i panni a ru munnàre, era un'occasione per loro per mettersi in libertà togliendosi le gonne e rimanendo in sottana a sguazzare nell'acqua limpida, un'occasione anche per noi adolescenti per ammirare le cosce bianche nascosti dietro ai cespugli, a le véteche. Il frigorifero di casa era la finestra esposta a nord e quindi più fresca delle altre, i più fortunati possedevano una radio, non c'era ancora la televisione. A volte ascoltavamo Radio Praga, in italiano, che oltre alla propaganda filosovietica trasmetteva canzoni moderne. Il primo apparecchio tv fu acquistato nei primi anni '60 da un circolo ed era collocato nella vecchia palestra dell’edificio scolastico, nello stesso locale proiettavano periodicamente film e siccome si pagava il biglietto, 50 lire, e noi ragazzi non ne avevamo neanche una di lire, ci arrampicavamo sul davanzale delle finestre. Ricordo di aver visto un intero film dal titolo "Circo in fiamme" arrampicato su una di quelle finestre. Tutte le volte che sento parlare di sottosviluppo del terzo mondo faccio notare che meno di mezzo secolo fa , gran parte del mezzogiorno d'Italia era nelle stesse condizioni del terzo mondo attuali. E mezzo secolo nella storia dell’umanità sono un lampo. Il reddito annuo di una famiglia tipo era così composto: circa 10-15 quintali di grano, circa 10 quintali di patate, 1 o 2 quintali di granturco, cipolle agli e erbe aromatiche varie, un maiale di circa 1 quintale, alcune forme di formaggio ed uova sufficienti per fare le pallòtte, il latte necessario a tutti gli usi della famiglia. In condizioni normali per produrre 3-4 quintali di grano occorreva la lavorazione di un tomolo di terra con 1-2 giornate per l'aratura, 1-2 giornate per la semina ed erpicatura, 3-4 giornate per la mietitura, 1-2 giornate per il trasporto e per la sistemazione sull'aia, dove gli esperti costruivano vere e propri capolavori, manucchiàre, con la parte superiore a forma di tetto, con migliaia di covoni, 1-2 giornate per trebbiare e riportare a casa il grano.

Quindi 3-5 giornate di lavoro per quintale di cereali prodotto, una produttività decisamente scarsa, infatti il sistema è sopravvissuto fino a che non è stata superata l'economia dell'autosufficienza dove si impegnavano al massimo le forze produttive della famiglia per ricavarne il minimo per sopravvivere. Nelle annate buone si accumulava qualcosa mentre in quelle cattive malannàte si consumava tutto quello che si aveva. Vestire decentemente era un lusso e ognuno aveva solo il vestito della festa e qualcuno in più per il lavoro. Per la maggior parte dei casi si trattava di stoffa riciclata e molte volte di provenienza americana, da dove arrivavano pacchi spediti da parenti emigrati. Non ho mai capito se i vestiti appartenessero agli emigrati e famiglie oppure ad altre persone; comunque ricevere un pacco da parte dei parenti "ricchi" era sempre una festa ed aprirlo una sorpresa soprattutto per i bambini. I grandi fingevano un certo distacco. A proposito di pacchi, sono da ricordare gli aiuti del piano Marshall, che nei primi anni '50, arrivavano dagli USA sottoforma di pacchi contenenti scatolette e alimentari a lunga conservazione di vario genere, questi venivano utilizzati in modo discriminatorio per cui se c'era solo il sospetto che uno fosse comunista o socialista veniva automaticamente escluso. Il contenuto non era una grande cosa ma la fame nel dopoguerra ingigantiva il valore dei pacchi, peraltro ben confezionati. Ricordo in particolare una margarina in scatola che noi spalmavamo sul pane, quel poco di pane che c'era. Paradossalmente il periodo di maggiore sviluppo delle attrezzature e delle macchine agricole coincise con una grande ondata migratoria e ben presto molti terreni, che avevano sfamato migliaia di persone nel corso degli ultimi secoli, furono abbandonati. Restarono alcuni ettari a fieno e prato pascolo, per questo ultimo uso nella fase in cui gli animali da sfamare diminuirono drasticamente, vi fu improvvisamente e per la prima volta nella storia che conosciamo un'offerta superiore alla domanda. Ma il declino degli allevamenti impiegò solo qualche anno in più di quello dell'agricoltura attraversando una fase in cui c'erano pochi allevatori, tutti appartenenti alla vecchia generazione, ed avevano più spazi a disposizione per pascolo e fieno. Purtroppo neanche in quella fase si ebbero iniziative zootecniche di rilievo ed i vecchi allevatori si limitarono ad aumentare di qualche capo il patrimonio aziendale. Qualcuno arrivò ad avere oltre dieci capi ma senza che questo facesse avvertire l'esigenza di costruire stalle razionali e più rispondenti alle esigenze. Ricordo che in quella fase ci fu la possibilità di utilizzare i capannoni della Coop 1° Maggio, ma gli allevatori non ritennero necessaria la cosa. I terreni situati nella parte più bassa del territorio comunale sono attualmente occupati da meleti impiantati dalla società Melise, ma di questo parleremo in un altro capitolo.

Ora i pascoli di una volta sono diventati quasi inaccessibili per la crescita dei cespugli, ma in compenso ci sono le stradine dei tartufai che per raggiungere le zone più ricche di questo prezioso tubero attraversano terreni impervi ed accidentati. Sarebbero necessarie - e questa a mio parere è la vera sfida che abbiamo davanti - iniziative zootecniche con allevamenti allo stato semibrado di bovini, ovini e soprattutto caprini, questi ultimi da usare come decespugliatori naturali per riportare i pascoli allo stato originario; senza l'ausilio di questi erbivori nel giro di qualche decennio sarà impossibile individuare i confini di un terreno. È indispensabile dare una risistemata ai terreni abbandonati eliminando i cespugli e ripulendo le strade mulattiere che oramai sono quasi completamente richiuse dalla vegetazione.


Nicola Zaccardi

 

Fonte: N. Zaccardi, Fesct' e mal tiemb'. Castel del Giudice tra memoria e progetto, Ires, Pescara 2007.

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