Febbraio 1944.
Vengo a sapere che le famiglie alle quali affidai, a Lucera, quello che era rimasto, si trovano a S. Pietro Vernotico in provincia di Brindisi. In casa decidiamo quindi di fare colà una capatina sperando di recuperare qualcosa. Per i civili è un problema affrontare viaggi, essendo quasi tutti i treni requisiti dalle truppe alleate per i loro spostamenti. Decido allora di andare io che, come soldato, posso essere autorizzato a viaggiare anche su convogli militari. Ottenuta la licenza dal mio comando del Distretto, parto.
Dopo un viaggio di alcuni giorni, giungo a S. Pietro Vernotico al tramonto. Mi viene indicata una scuola dove sono rifugiati gli sfollati provenienti dall'Abruzzo.
Li trovo ammassati nelle aule ma non ci sono capracottesi. Provengono da Ateleta, S. Angelo del Pesco, Castel del Giudice, Roccaraso, Gamberale. Da loro apprendo che alcune famiglie di Capracotta si trovano a Torchiarolo, una località a circa 10 km. da S. Pietro Vernotico. Nonostante siano calate le tenebre, mi metto in viaggio a piedi.
Lungo la strada mi viene alla mente il racconto dal libro Cuore "Dagli Appennini alle Ande". Dopo un paio di ore raggiungo Torchiarolo e da un passante del luogo mi viene indicata una casupola dove sono rifugiate due famiglie di sfollati aventi caratteristiche simili a quelle indicate da me.
Raggiungo la casupola e busso alla porta. La ricerca si esaurisce: sono proprio loro.
Li accoglie un unico locale non più grande di 6-7 mq. Stanno cenando e offrono anche a me un piatto di minestra. Restano meravigliati da questa visita improvvisa ma ancor più meravigliati da come sia riuscito a trovare quel posto, non avendo, loro, contatti con altri paesani, perché in quella zona non ce ne sono. Durante la misera cena accenno al motivo della mia visita: recuperare, entro i limiti del possibile, quel bagaglio lasciatogli alla stazione di Lucera. La risposta è evasiva; mi fanno capire che mai avrebbero immaginato che ci potesse essere un rintraccio, per cui buona parte di quegli indumenti erano stati utilizzati da loro e che un vestito era stato fatto indossare a un bambino della famiglia Di Rienzo deceduto. Qualcosa, però, era rimasto intatto e mi viene riconsegnato. Meglio di niente.
Trascorro la notte sui loro pagliericci e la mattina riprendo la via del ritorno di nuovo a piedi fino a S. Pietro Vernotico, e poi col treno fino a Barletta che, con il fiume Ofanto, forma una linea di demarcazione, controllata da militari alleati. Oltre quella linea, per venire verso nord, non si può andare: è necessario il permesso del comando alleato. A me questo problema non si pone, essendo militare di quel residuo scalcinato esercito italiano. Sono già in possesso del permesso, ottenuto prima di partire, e autorizzato a viaggiare anche con treni militari. Alla stazione di Barletta, infatti, staziona un treno di parecchi vagoni che trasporta truppe indiane al seguito dell'8ª Armata inglese che devono raggiungere il fronte verso Ortona a Mare. Insieme ad altri quattro soldati italiani e ad un maresciallo dell'aeronautica italiana, il servizio di scorta al treno ci assegna uno scompartimento per tenerci separati da quell'accozzaglia di soldati indiani, che sembrano un po' nervosi e irrequieti. Il treno parte al calar delle tenebre, in modo da viaggiare di notte ed evitare l'intercettazione da parte di aerei tedeschi. Dagli scompartimenti non filtra un filo di luce perché manca la corrente, però i soldati indiati e quelli della scorta sono muniti di torce elettriche, di cui si servono per muoversi sul treno. Viaggiamo tranquilli per qualche ora, fino a quando non cominciamo a sentire, provenienti da alcuni scompartimenti degli indiani, discussioni animate nella loro lingua, aventi le caratteristiche delle discussioni tra ubriachi; acuni tra i più scalmanati si mettono in giro lungo i corridoi del treno, dando fastidio a chi riposa nei vari scompartimenti. Né la scorta, né i superiori intervengono in quella bagarre, sicuramente giustificata dalla loro destinazione: sono carne da macello e dunque li lasciano liberi di sfogarsi come vogliono prima di raggiungere il fronte. In 4-5 si presentano davanti al nostro scompartimento; con le torce elettriche scrutano all'interno e quando scorgono il maresciallo italiano, pensando si trattasse di un ufficiale, entrano esagitati e, nonostante l'intervento di alcuni di noi, che cerchiamo di far loro capire che non è un ufficiale ma un sottufficiale, lo prendono di petto e, a schiaffi e pugni, lo riducono a uno straccio. Noi militari, impotenti davanti a quella furia, veniamo cacciati fuori dallo scompartimento e, urlando, chiediamo soccorso. Finalmente arrivano tre componenti del gruppo della polizia militare al seguito della truppa che riescono a calmare quegli energumeni e ad allontanarli, lasciando il povero maresciallo pesto e dolorante.
Alla stazione di San Severo il mio viaggio ha termine. A casa c'è molta delusione per quel po' di roba recuperata.
2 maggio.
Nel giro di una settimana viene a mancare zio Serafino. Da un banale dolore all'orecchio, dovuto a una raffreddata, si arriva a un intervento chirurgico a Cerignola.
Senza gli opportuni esami non si sono accorti, né hanno chiesto di eventuali disturbi accusati in precedenza, del diabete che ha causato la morte. Per la nostra famiglia è stata una grande perdita. A San Severo, dove contava da anni molte amicizie in tutti gli ambienti, era sempre riuscito a risolvere tutti i problemi che si presentavano agli sfollati. È rimasto sepolto in quel cimitero perché così ha voluto zia Rosa.
4 giugno.
Finalmente apprendiamo che Roma è stata liberata dalle truppe americane, sbarcate ad Anzio, e che la linea Gustav, lungo la quale è compresa Capracotta, è stata sfondata, e che le truppe alleate avanzano verso nord. È questo il segno che Capracotta potrà essere sgombrata dalle truppe e che potrebbe essere prossimo il rientro. Infatti cominciamo ad avere notizie secondo cui le truppe di stanza in quella zona si stanno trasferendo verso nord, lasciando liberi i paesi nei quali avevano trascorso l'inverno in attesa dell'offensiva primaverile.
Luglio.
Notizie ormai certe, provenienti da Capracotta tramite persone già rientrate, perché sfollate in paesi limitrofi quali Agnone, Carovilli, Pescolanciano, ci confermano che il paese è ormai completamente libero dalle truppe ed è pronto a riaccogliere i suoi figli sfollati che, oltre al desiderio di rientrare nel proprio paese, devono avere il coraggio di iniziare l'opera di ricostruzione. Le autorità locali, insediate dal comando militare alleato, possono dare agli sfollati soltanto il bentornato ed offrire loro una meravigliosa stagione estiva, indispensabile per poter lavorare. I miei, intorno, al 10 luglio, decidono anch'essi di rientrare in paese; mio padre è impaziente: deve tornare per ricostruire la casa. Oltre che barbiere è anche muratore, per cui può iniziare subito.
Carovane di carretti riprendono la strada del ritorno; il carretto è l'unico mezzo di trasporto. Con esso, per raggiungere Capracotta, ci vogliono tre giorni, dovendo fare, per il riposo notturno dei cavalli, due soste in taverne lungo il tragitto.
La mia famiglia riparte su uno di questi carretti. Purtroppo, per la posizione di soldato, io resto a San Severo e mi sento un vigliacco verso di loro, per non poter partecipare ai sacrifici che dovranno affrontare per ricostruire la casa.
Agosto.
Un decreto del Ministero della Guerra impone ai distretti militari di assumere, per il lavoro d'ufficio, personale civile, e di trasferire gli altri (che non appartengono a classi anziane dal 1910 in poi) ai reparti militari. Siamo una ventina ad essere trasferiti al 47° Reggimento Fanteria di Lecce, dove, appena giunti, resici conto della confusione esistente e del disordine che regna sovrano in tutti i servizi, decidiamo di abbandonare tutto e di tornarcene a casa.
In poche parole disertiamo, sicuri di farla franca da quelle che erano le pene previste dal codice penale militare.
Non accettano di partire tre o quattro sottufficiali, perché di carriera. Riprendiamo il treno e, dopo un viaggio di peripezie per evitare ronde e altri controlli, raggiungiamo San Severo, da dove ognuno avrebbe preso la propria strada, essendo quasi tutti della zona.
Io mi metto in contatto con quelle famiglie di Capracotta che si trovano ancora a San Severo per ritardi nelle partenze o perché hanno deciso di non rientrare al paese e rimanere nelle Puglie. Una di queste famiglia, precisamente quella di Ruggero Battista, commerciante di cartone, mi offre alloggio, vitto e un posto sul loro carretto che partirà per Capracotta dopo un paio di giorni. Prima della fine di agosto sono a Capracotta, dove trovo i miei sistemati alla meglio e ammucchiati nella casa Trotta.
Papà si è messo sotto a liberare dalle macerie la casa distrutta e a cominciare la ricostruzione cercando di recuperare pietre, sterratura e mattonelle rimaste intatte. Fiore si è messo a fare il barbiere, Filuccio il manovale con altri muratori. Io aiuto papà in qualità di manovale, a Monteforte a cavare le pietre lisce da utilizzare per la copertura del tetto. Dalle autorità provinciali dell'epoca cominciano ad arrivare segni di aiuto alla ricostruzione: rimborso del 45% della spesa sostenuta, concessione di travature in legno per i tetti da ritirare all'abetaia di Pescopennataro, risarcimento danni per i beni mobili perduti durante la distruzione.
Giuseppe Trotta
(a cura di Enza Trotta)