Nei giorni dal 7 al 12 novembre i capracottesi hanno vissuto i momenti più tristi della loro esistenza, dovendo assistere inermi alla distruzione delle loro case da parte dei corpi speciali delle SS delle truppe tedesche in ritirata e subire ogni genere di persecuzione, repressione e privazione. Nei tre volumi "1943: la guerra a Capracotta", pubblicati dal Comune di Capracotta alcuni anni fa, sono raccontati con dovizia di testimonianze e con accurata ricostruzione storica i tragici fatti di quelle giornate di novembre del 1943. Alle tante cose dette e scritte, però, ho voluto apportare un ulteriore contributo alle sofferenze di quei giorni, riportando l'esperienza vissuta in quei giorni da Michelina Sozio, (deceduta il 26 marzo 2004), che con commozione e con l'orrore per le guerre ha raccontato la sua storia e quella della sua famiglia in quell'arco di tempo che va dal mese di novembre 1943 al mese di luglio del 1945. Una storia brutta, che non augura a nessuno, che inizia con la distruzione di Capracotta, segue lo sfollamento e si conclude col ritorno definitivo qualche anno dopo a Capracotta.
Nei primi giorni del mese di ottobre, credo tra il sette e l'otto, le truppe tedesche si avvicinarono a Capracotta e si accamparono nelle campagne circostanti. In paese occuparono solo l'edificio scolastico che adibirono ad ospedale. Qualche compaesano bisognoso fu anche curato in questa struttura dai tedeschi. Costretti ad indietreggiare i tedeschi a quel punto si stabilirono in paese utilizzando le case vuote e quelle sottoccupate. Di notte dormivano nelle case e di giorno si recavano al comando. Il loro comportamento fu corretto e non fu segnalato nessun atto di molestia alle donne. Tutto questo andò avanti sino ai primissimi giorni di novembre.
Il quattro novembre accadde il primo fatto tragico. Furono fucilati dai tedeschi i fratelli Fiadino, rei d'aver ospitato alcuni prigionieri canadesi scappati dopo l'otto settembre dal campo di prigionia di Sulmona. Il banditore Gildonio, tutti i giorni, su comando del podestà di allora, Filiberto Castiglione, ricordava ai cittadini di denunciare la presenza dei fuggiaschi inglesi e a non ospitarli, pena la rappresaglia tedesca, ma i Fiadino ascoltarono la loro coscienza e pagarono con la vita la disobbedienza alle ordinanze tedesche.
Nei giorni successivi non si videro più tedeschi in giro e questa calma eccessiva ci mise in allarme. Non sapevamo cosa stava succedendo e cosa potesse accadere. Immaginavamo che i tedeschi erano andati via e che, quanto prima, sarebbero arrivati gli inglesi a liberarci. Ma la mattina dell'otto novembre il banditore Gildonio annunciò:
– Uscite tutti dalle case perché fra poco incendieranno il paese.
Mia suocera si affacciò alla finestra per capire che stava succedendo e per strada vide zio Antonio Sozio (Cicchemuórte) che le riferì:
– Sto venendo dalla Piazza e don Filiberto, il podestà, ha detto di portare via tutta la roba perché fra poco i tedeschi bruceranno il paese.
Essendo un tipo burlone non fu creduto, però questa volta diceva la verità. Nel giro di qualche ora si scatenò l'inferno, e le case cominciarono a bruciare e a saltare in aria con le mine fatte esplodere dai tedeschi. Quell'anno l'inverno arrivò in anticipo, c'era neve dappertutto e questo rendeva più difficile la decisione di lasciare le abitazioni. Purtroppo non avevamo scelta e anche noi fummo costretti a lasciare la casa. Portai con me un cappotto e uno scialle e la prima notte la passai assieme alla mia famiglia nella casetta del Tiro a Segno, mentre altre persone avevano trovato rifugio nelle chiese e altre nel Cimitero. All'imbrunire del giorno successivo tornammo in paese e notammo che la casa dei miei suoceri non era stata bruciata, quindi decidemmo di rientrare. Verso le dieci del mattino, però, c'intimarono di lasciare nuovamente la casa. Mio suocero, malato di cuore, non voleva uscire e per portarlo via fu una faticaccia.
Prima di andare via portammo fuori i mobili e li accantonammo sui marciapiedi, dopodiché, verso mezzogiorno ci dirigemmo verso la Chiesa di S. Antonio, dove si erano rifugiati altri paesani. Appena giunti davanti alla chiesa, sentimmo un forte boato e la nostra casa crollò disseminando pezzi di pietre in tutte le direzioni e in particolare sui mobili addossati al marciapiede, ormai inservibili. Non tutte le abitazioni, però, furono completamente distrutte perché i tedeschi, mettendo le mine una casa sì ed una no, consentirono alle abitazioni non direttamente minate di subire danni meno pesanti. Tra queste anche quella dei fratelli di mia zia Maria, disabitata perché questi parenti vivevano nella masseria in località Guastra. E così io, mio padre, mia madre, le sorelle, mio fratello, mio zio Antonio con tutta la sua famiglia, in tutto eravamo diciassette persone, ci sistemammo in quest'abitazione. I miei suoceri, invece, si sistemarono nella casa di Giacomo Giuliano sotto la piazzetta.
Intanto l'esercito alleato era fermo tra Staffoli e Pescolanciano e nonostante le segnalazioni di entrare in paese, perché i tedeschi erano andati via, temporeggiavano a farlo, continuando a cannoneggiare il nostro territorio e quello dei paesi vicini. I disagi per tutti noi capracottesi erano forti. Il cibo scarseggiava e le condizioni igienico-sanitarie spaventose. Si cercava di avere un po' di farina e così si preparava un po' di polenta o pasta fatta in casa. In paese eravamo in tanti ma con la guerra eravamo rimasti: donne, vecchi, bambini e qualche imboscato perché i giovani erano tutti al fronte.
Tra il 20 e il 25 novembre, finalmente gli alleati entrarono in paese. C'erano soldati di tutte le razze: canadesi, marocchini, tunisini, algerini, polacchi ed altri. Sembrava la fine di un incubo e invece di lì a qualche giorno ricominciò l'odissea. Giunse l'ordine di lasciare Capracotta perché il paese era diventato linea di fronte di guerra. Nei primi giorni di dicembre iniziò lo sfollamento. L'abbandono del paese verso località che non avevano subito i danni della guerra. Era obbligatorio.
Controvoglia anche noi dovemmo lasciare Capracotta. Era mezzogiorno dell'otto dicembre, faceva freddo e, mal nutriti e mal vestiti, coi camion militari fummo portati al centro di prima accoglienza di Campobasso. Qui fummo lasciati all'addiaccio per tutta la notte, assieme agli altri sfollati provenienti dal resto dei paesi dell'Alto Molise e dall'Alto Sangro aquilano e chietino, passando una notte tremenda, in condizioni pietose in mezzo al fango che ti arrivava oltre la caviglia per le piogge abbondanti cadute nei giorni precedenti. Al mattino ci portarono, sempre con i camion militari, alla stazione di Termoli dove pigliammo un treno diretto a Bari. Con noi c'erano sfollati di tutto l'Abruzzo e Molise, provenienti dai paesi che avevano subito la sorte di Capracotta. Arrivati a San Severo in provincia di Foggia, il controllore ci chiese dove eravamo diretti.
– Non lo sappiamo, – ripondemmo – ci hanno caricati sul treno a Termoli e non sappiamo qual è la destinazione finale.
Al che ci disse:
– Prima di arrivare a Foggia il treno rallenta, scendete, nessuno vi vedrà perché è buio. Poi dirigetevi verso San Severo o verso Lucera, paesi ricchi che vi potranno ospitare, perché se andate verso Bari, Brindisi, morirete di fame.
Alcuni di Capracotta scesero, mentre noi proseguimmo e la mattina arrivammo a Bari.
Nessuno, al nostro arrivo si prese cura di noi. Per tre giorni restammo in attesa sul treno in condizioni igieniche disastrose coi pidocchi che ormai cominciavano a diffondersi con rapidità. Alla fine decidemmo di inviare una delegazione in Prefettura per sollecitare la nostra sistemazione. Solo così il prefetto si decise a darci una destinazione. Potevamo scegliere tra diverse località, noi decidemmo per la città di Trani, perché vedemmo che quella località era più vicina a Capracotta. Cosi ci sistemarono in un vecchio edificio pubblico adibito ad uffici. A noi, cioè alla mia famiglia e a quella di zio Antonio, capitò una stanza di 4x4 m., che, oltre ad essere piccola (eravamo sempre in diciassette), era posta all’ingresso dell'edificio e quindi era usata anche da corridoio per gli sfollati delle stanze adiacenti. Letti non ce n'erano e per dormire, la sera, stendevamo la paglia per sdraiarci sopra, il mattino la ritiravamo e la accantonavamo in un angolo. Una notte, uno sfollato lasciò l'acqua aperta dei bagni e ci allagammo tutti. La paglia si bagnò e non ce la vollero cambiare dicendoci di asciugarla e di riutilizzarla. Una vera tragedia, trattati come le bestie. Non so chi ci ha dato la forza di andare avanti.
Nel febbraio del 1944 le cose andarono un po' meglio perché alcune famiglie siciliane e campane andarono via e potemmo sistemarci più comodamente. Da mangiare ci davano brodaglia di foglie di cavolfiori con fave, preparata dalle suore. Il pane era razionato e la razione era di cento grammi a testa. Mio fratello e mio padre, intanto, incominciarono a lavorare con gli americani e a guadagnare qualche soldo. Noi donne non facevamo niente, l'unica attività era di andare a zappare la terra, ma questo lavoro era riservato agli uomini. La scelta era di fare le serve, ma a noi non piaceva. Solo mia sorella Angela, allora diciassettenne, tramite l'interessamento di una persona del Comitato Profughi, fu inserita presso le suore Ventura per continuare il lavoro di sarta che già aveva iniziato a Capracotta.
Nel mese di giugno del 1944 lasciammo l'edificio pubblico ed andammo ad abitare in una casa vicino al mare. L'alloggio era gratis. Per campare ricevevamo un sussidio e in più c'era l'entrata di mio padre e mio fratello.
Tra maggio e giugno del 1945, ormai a guerra finita, tornammo in paese. Andammo ad alloggiare, questa volta solo la mia famiglia, in una casa malmessa dei miei nonni materni lungo corso S. Antonio. Di lì a qualche mese iniziò il piano di ricostruzione e il paese man mano riprese a vivere.
Matteo Di Rienzo
Fonte: M. Di Rienzo, La distruzione di Capracotta da parte dei tedeschi in ritirata, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. II, Proforma, Isernia 2012.