La voce della chiamata alle armi arrivava incontrastata nei più reconditi angoli della penisola italiana. Giunse anche a Capracotta (Isernia). Piccola cittadina posta lungo uno sperone di roccia prospiciente i crinali della Maiella. I fanti capracottesi o, meglio, i «prodi montanari sanniti» (come inscritto sulla lapide murata) che non riabbracciarono più la propria terra furono 65, due in più rispetto all'elenco posto sulla lapide commemorativa: Nicola Colacelli e Francesco Paglione. Rispettivamente: l'uno, deceduto per malattia a Roma il 16-12-1915 all'età di ventisei anni; l'altro, di anni venticinque, sempre per malattia, ad Agnone il 31-5-1917. Entrambi non godettero della "futura memoria". Probabilmente, perché non lasciarono la loro esistenza su un campo di battaglia. Non rientrando nella retorica del tempo, fu un'esclusione imperdonabile. Nessuno però negli anni ha rimediato all'affronto, come se i due fanti non fossero degni di essere ricordati.
Eroi silenziosamente entrati nella Storia, loro malgrado, travolti dallo spietato fuoco nemico cui andarono incontro dietro l'impietoso ordine dei comandanti dopo essersi fatti il segno di croce, rivolto il pensiero ai cari lasciati nell'ansia, sollevato poi lo sguardo al cielo, ultimo conforto prima d’imboccare il destino, di perdere ogni pensiero e svanire tra i densi fumi della polvere da sparo e della nebbia.
Con tutta ragionevolezza le altisonanti parole di gloria, patria, coraggio, onore, viltà, vittoria riempirono soltanto le bocche di chi programmò gli assurdi assalti alla baionetta o di chi fu chiamato a celebrare i riti commemorativi su palchi imbandierati dal tricolore al vento, tra fanfare di bersaglieri o bande ad eseguire l'inno di quella sciagurata guerra: la "Canzone del Piave". Parole che nel personale dizionario dei montanari e pastori e contadini capracottesi, come della stragrande maggioranza dei combattenti che poterono ascoltarle, suonavano quanto moneta falsa. Il critico letterario americano, Leslie A. Fiedler, scrisse: «I concetti di gloria, onore e coraggio, perdono ogni significato quando l'uomo occidentale, nominalmente ancora cristiano, giunge alla conclusione che la cosa peggiore che possa capitargli è morire». E, aggiungiamo noi, morire in guerra.
Paure, dolori, speranze di sopravvivenza, malinconie attraversavano le menti e i cuori dei fanti. C'era tra loro chi raccoglieva quei moti d'animo, cercando di mitigarli col conforto della parola o dell'ascolto nello spazio di una confessione. Chi meglio di chiunque altro se non un cappellano militare? Tra i tanti a prodigarsi, ce ne fu uno, proprio nativo di Capracotta, che entrò accidentalmente nei ricordi del grande scrittore americano Ernest Hemingway. Vi entrò attraverso la porta del romanzo. Un romanzo sullo «sporco delitto che è la guerra». È un'affermazione di Hemingway. Stiamo parlando di "Addio alle armi" (1929) che lo scrittore volle collocare al tempo della tragedia di Caporetto. Un palcoscenico sulle cui "traballanti" tavole si muoveranno uomini e donne che nulla concedono alla fantasia, bensì personaggi in carne ed ossa che percorreranno l'intricato farsi della vita sul labile confine di goderla fino in fondo o di doverla abbandonare al di qua in un umido giorno rischiarato dai lampi degli shrapnel o su un letto d'ospedale.
Tra i personaggi cari a Hemingway, in quella sorta di "Guerra e pace", la figura meglio conservata gelosamente nel tempo è l'esile cappellano, il sacerdote che «era giovane e arrossiva facilmente», quando i militari nei loro modi guasconeschi e irriverenti - bicchiere in mano - gli si rivolgevano tirandolo per la tonaca, ovvero l'uniforme «con una croce di velluto rosso sul taschino del grigioverde», in discussioni che chiamavano in ballo ragazze o che lo stuzzicavano su questioni religiose. Il giovane stava allo scherzo e sorrideva. Mentre Frederick Henry, il protagonista del romanzo, assisteva a quelle scene goliardiche e, guardandolo, pareva che dicesse: «Li perdoni padre, non dia loro retta. Non sanno quel che dicono».
Il cappellano, nella realtà padre Placido da Capracotta (dei Frati Minori Cappuccini, al secolo D'Onofrio Rodolfo di Costantino e di Bambina Carnevale, nato a Capracotta il 28 marzo 1882 e morto a Roma il 22 aprile 1938), invitava Frederick a recarsi in visita negli Abruzzi. Sarebbe stato ospite della sua famiglia, dirà: «Le piacerà la gente, e il clima benché freddo è sereno e asciutto... Mio padre è un gran cacciatore». Come del resto lo era Hemingway. Tuttavia il tenente americano F. Henry, aggregato all'esercito italiano della II Armata nei servizi sanitari, sebbene fosse stato in giro per l'Italia in licenza da Milano a Napoli, non farà visita agli Abruzzi. Eppure aveva desiderato andarvi: «Laggiù dove le strade sono gelate e dure come il ferro e il freddo è limpido e secco, la neve asciutta come polvere, e tracce di lepre solcano la neve e i contadini levandosi il cappello vi chiamano Signoria, e la caccia è eccellente».
Al termine della licenza, i due s'incontrarono di nuovo. «Quella sera, a mensa, mi sedetti accanto al cappellano, e rimase un po' offeso perché non ero stato negli Abruzzi. Aveva annunciato la mia visita ai genitori». Da altro era stato preso Henry/Hemingway. Dalle sale piene di fumo dei caffè o estraniato nei fumi dell'alcol o con ragazze di "passaggio" a Milano a Firenze a Napoli a Taormina...
Proseguirono le conversazioni tra i due. Amabili, pacate, condivise da gusti comuni. Intanto, fuori, la guerra seminava dolore e morte. Le trincee s'intridevano d’acqua e il fango stringeva le caviglie dei soldati quanto l'angoscia i loro cuori. Gli ospedaletti da campo si riempivano di feriti. Giungevano a decine. Lo stesso Henry venne ferito gravemente ad una gamba a causa dello scoppio di un proiettile di mortaio nemico. Padre Placido gli fece visita. Aveva una pesante stanchezza sul viso, lo ricorda Henry. Gli portò dei doni: una bottiglia di vermut e dei giornali inglesi fatti venire da Mestre, tra cui "The News of the World". Il cappellano era davvero stanco. L'"odio della guerra" gravava sul suo animo sensibile. Un'unica speranza gli accomunava, nella triste stanza d'ospedale, e se lo confessarono a vicenda: che quella maledetta guerra finisse al più presto. Così che l'uno riprendesse la via dell'America e l'altro i suoi amati Abruzzi «nell'amore di Dio e al suo servizio». Nel suo paese, aggiunse il sacerdote, inerbendo le parole: «Non trattano la religione, come una commedia». A Capracotta, aveva raccontato il cappellano, il fiume a valle guizzava di trote. Gli aveva riferito anche che là era proibito suonare il flauto «quando i giovani la notte fanno le serenate.» Il flauto era pericoloso per le ragazze. Poi, nel buio della corsia, Henry si era adagiato con la memoria sulle indicazioni del sacerdote che gli aveva descritto la sua terra: «Ci sono gli orsi sul Gran Sasso d'Italia ma è lontano. L'Aquila è molto bella. Le notti sono fresche d'estate, e non c'è primavera più splendida in Italia. Ma ancor più meraviglioso è d'autunno andare a caccia nei boschi di castagni»...
Sul ricordo che pian piano svaniva, infine, Henry si addormentò.
In certi momenti, non c'era altro cui tendere il pensiero se non verso la speranza. Rappresentava l'unico conforto al pari dell'amore in Dio. Henry però non aveva il dono della fede. Il cappellano non si perdeva d'animo. Fiducioso, una volta gli disse che prima o dopo l’avrebbe trovata e sarebbe stato felice.
Si giunse agli infernali giorni del San Gabriele.
Il 4 settembre la II Armata italiana, proprio quella cui apparteneva Frederick Henry, iniziava l'attacco intorno alle alture che cingono Gorizia. L'11.ma Divisione del VI Corpo dava quindi la scalata alle pendici del monte San Gabriele, raggiungendo la linea tra le quote 552 e 646, catturando quasi 200 austriaci. La vetta tuttavia fu tenuta dagli italiani per soli due giorni, giacché durante la notte del 6 settembre 1917 si accese la controffensiva del feldmaresciallo austroungarico Svetozar Borojević von Bojna, che spinse gli italiani a ritirarsi. Nei giorni successivi, fino al 10 settembre 1917, il San Gabriele fu teatro di una lotta incessante e sanguinosa. Il Comando della II Armata ritenne di battere la resistenza dei difensori del San Gabriele con un prolungato bombardamento. Furono costretti, però, a rinunciare dopo pochi giorni a causa dell'esorbitante impiego di munizioni. Ma anche perché gli austriaci erano in grado di resistere poiché protetti dalle inespugnabili caverne in cui si erano rifugiati.
I giorni continuarono a scorrere tra gli affari di cuore di Henry e la guerra che imperversava tutt'attorno. Il cappellano e il tenente si rividero un'ultima volta sul finire dell'estate 1918, nella penombra della sera. Erano entrambi provati del continuo altalenante ribaltamento dei fronti: ora in mano agli italiani ora agli austroungarici. Sembrava un'interminabile guerra che dovesse concludersi per sfinimento delle parti. Nelle loro conversazioni si annidava un senso di sconfitta, non tanto per le sorti della guerra in sé, piuttosto nell'assenza di futuro, come se i pensieri si fossero arresi al presente incerto: senza luci, senza orizzonte. In quella penombra si salutarono. Si lasciarono quasi avvolti da una bolla di sfiducia col solo bagliore dell'illusione di rivedersi ancora.
Il cappellano si accomiatò, appoggiando una mano fraterna sulla spalla di Henry.
Alfredo Fiorani
Fonte: https://www.altosannio.it/, 10 novembre 2017.