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La donazione dell'Hospitalis di S. Croce del Verrino


Santa Croce Verrino
Pianta del Feudo di Santa Croce in Verrino in territorio di Capracotta (1700).

Lo strumento notarile del 1336, il cui testo in lingua latina integralmente si pubblica unitamente a delle note di commento, è stato richiamato all'attenzione degli studiosi di monachesimo, per la prima volta, più di quindici anni or sono quando Luigi Pellegrini, nel 1999, pubblicò l'opera "Che sono queste novità? Le religiones novæ in Italia meridionale (secoli XIII e XIV)".

L'Autore, trattando dell'attività assistenziale dei celestini, rilevava che «se la gestione di opere assistenziali era senz'altro onerosa, l'acquisto di un ospedale poteva di per sé essere un buon affare, dati i beni e le rendite talora cospicui, che costituivano il patrimonio di cui era dotato l'ente e che con esso passavano in proprietà dei monaci».

Continuava poi affermando: «Ne costituisce un ottimo esempio la donazione dell'ospedale di S. Croce sul torrente Verrino al Monastero di Agnone nel 1336, attraverso la quale quella comunità morronese veniva in possesso di numerosi appezzamenti di terra, di prati, di vigne».

Il tema della donazione dell'ospedale di S. Croce del Verrino veniva successivamente ripreso, in maniera più ampia, da Bruno Figliuolo in un suo saggio specificamente dedicato ai priorati celestini molisani di S. Maria della Maiella a Trivento e Agnone.

L'Autore, oltre a ripercorrere l'iter fondativo del cenobio agnonese, analizza le testimonianze tratte dall'archivio diocesano di Trivento che attestano, per l'arco temporale del ventennio 1324-1344, come «il cenobio agnonese conobbe in quegli anni un periodo di crescita significativa [dovuto alla] fervida spiritualità che esso seppe trasmettere di sé in particolare alla più alta società locale, di cui riuscì così a suscitare la pietas e ad attirare la generosità».

Proprio un personaggio dell'alta società agnonese, il milite Gualterio, Signore del Casale di S. Croce del Verrino, discendente forse dalla dinastia dei Borrelli, volle donare alla Comunità morronese di S. Spirito di Sulmona e, per essa, al monastero di S. Maria a Maiella di Agnone l'hospitalis con l'annessa chiesetta che possedeva lungo la sponda del Verrino.

Le iniziative svolte dai monaci celestini a favore degli infermi e la vasta attività caritativa esercitata mediante la fondazione e gestione di ospedali, specialmente nel periodo delle origini, non ha trovato finora adeguata trattazione salvo gli autori in precedenza menzionati e gli apprezzabili spunti di Gregorio Penco che, oltre le citazioni degli ospedali di S. Croce di Roccamontepiano e di S. Onofrio di Campli fondati nel territorio dell'Abruzzo nel corso del Trecento, non manca di ricordare le lodi espresse dal Petrarca nei riguardi del celestino Roberto di Salle «fondatore di monasteri ed ospizi per i pellegrini al Gargano».

Ma al di là di queste scarne e frammentarie notizie, è finora mancato uno studio più articolato e completo che, analogamente a quanto fatto dallo Spinelli per il territorio di Nonantola, facesse emergere la consistenza, le dimensioni e le modalità dell'assistenza ospedaliera all'interno dei contigui contesti territoriali dell'Abruzzo e Molise. In attesa di una maggiore attenzione della comunità di studiosi, che ha trascurato tale interessante prospettiva di ricerca, conviene intanto occuparci dell'atto di donazione dell’ospedale alto-molisano di S. Croce del Verrino - la cui postuma e plurisecolare vitalità è attestata da significative tracce documentali di epoca successiva all'atto trecentesco di donazione ed in cui, ancora una volta, viene menzionata e risalta la figura del celestino Roberto di Salle ed il ruolo avuto nel rogito notarile del 1336, notizie che aggiungono un ulteriore tassello alle testimonianze d'archivio del Trecento.

È sufficiente qui constatare che il cospicuo patrimonio terriero, trasferito in proprietà ai monaci celestini con il predetto atto di donazione del 1336, si accrebbe notevolmente nel corso dei secoli fino a diventare un vero e proprio "feudo" ed a raggiungere nell'anno 1700 la ragguardevole estensione di settecento tomoli, valutabili attualmente a circa 350 ettari.

La elevata consistenza del patrimonio, rimasto sempre nella piena disponibilità dei Padri Celestini di S. Maria della Maiella di Agnone ma nelle mire dei proprietari dei grandi armenti per i pregiati erbaggi dei suoi prati, attirò l'interesse del dott. Giuseppe di Maio personaggio di riguardo appartenente ad una prestigiosa famiglia di grandi locati capracottesi legata al mondo celestiniano, che nell'anno 1700 chiese ed ottenne in enfiteusi il feudo celestino.

Una pianta topografica, conservata nell'Archivio storico del Comune di Capracotta e pubblicata appresso come "appendice documentaria", attesta tale vicenda che appare rilevante non solo per il connubio e l'intreccio di interessi socioeconomici tra realtà religiose e esponenti del ceto pastorale delle comunità locali ma anche per i riflessi di carattere toponomastico della cartografia in quanto il compassatore Giovann Pizzelli estensore del documento, (rectius: Giovanni Pizzella, agrimensore), riporta località e toponimi contenuti nell'antico atto notarile del 1336 (Carbone, Spinete, Spogna, S. Giovanni Caprara, etc), confermando, quasi quattro secoli dopo, la situazione dei luoghi circostanti le sponde del torrente Verrino.

 

Il documento della donazione trascritto dallo Zanotti e pubblicato nell'appendice documentaria è anzitutto importante sotto il profilo dell'assetto organizzativo dell'Ordine benedettino nei primi decenni del Trecento, oggetto di approfondite riflessioni da parte di Gregorio Penco.

Dallo strumento notarile si evince che l'organizzazione monastica celestina viene individuata con l'appellativo di «Religionis Beati Petri Confessoris de Murrono» che costituisce una variante della denominazione di "Ordo S. Petri Confessoris" che, secondo Luigi Pellegrini, appare per la prima volta nel 1315.

Dall'atto notarile risulta, altresì, che in tale periodo il Monastero di S. Spirito vicino Sulmona era retto dal "Priore" Roberto di Salle che, secondo Frugoni ed altri studiosi, sarebbe stato il discepolo che raccolse dalla viva voce di Frate Pietro i fatti narrati nella prima parte, ossia nel Prologo, della Autobiografia.

La vita di Roberto di Salle, discepolo e confratello di Pietro da Morrone, è stata profondamente indagata da Eugenio Susi il quale indica, sulla scorta di una anonima biografia agiografica, l'anno di nascita nel 1272. In base a tale indicazione biografica è possibile credere che le testimonianze ed i dati finora acquisiti sulla figura di Roberto di Salle non siano riferibili, avuto riguardo al profilo temporale, al percorso monastico di un unico seguace di frate Pietro da Morrone, ma a due diversi personaggi religiosi. Questi ultimi provenienti dallo stesso borgo di Salle ed appartenenti a distinti casati familiari divennero, in tempi diversi del sec. XIII, confratelli di Pietro da Morrone prendendo lo stesso nome religioso di Roberto di Salle. La datazione, anche se in via approssimativa, degli eventi legati al percorso monastico di questi due omonimi monaci di Salle che furono seguaci e confratelli di Pietro da Morrone, rende poco plausibile la coincidenza di identità tra i due conterranei, ma non coetanei, seguaci di Pietro da Morrone che furono in tempi diversi molto vicini a Celestino ed ebbero vocazioni spirituali e ruoli preminenti, all'interno della congregazione. Il primo e più anziano Roberto di Salle, di cui sono ignoti sia l'anno di nascita (da collocare presuntivamente tra il secondo e terzo decennio del Duecento) che l'ambito familiare, appare per la prima volta come confratello di Pietro da Morrone nel periodo della sua dimora sul Monte Morrone luogo in cui venne a formarsi un minuscolo drappello di monaci eremiti la cui individuazione e primitiva consistenza non ha finora destato grande attenzione da parte degli studiosi.

Le fonti più antiche del Trecento attestano che il ritiro sul Morrone sarebbe avvenuto dopo il 1234 e che trascorsi cinque anni frate Pietro da Morrone «se ne andò da quel luogo (antro del Morrone) e si recò sul Monte della Maiella e li trovò una grande grotta che gli piacque molto. Ma non piacque ai due compagni».

L'identificazione di questi due compagni non è a tutt'oggi certa e pacifica anche se R. Gregoire sostiene che i due eremiti, seguaci di Pietro da Morrone nella sua dimora del Morrone, fossero Roberto di Salle e Rinaldo da Sulmona che lo raggiunsero presso San Giorgio di Roccamorice.

Notizie più precise invece sussistono per un ulteriore episodio, attestato da più fonti, riguardante il ruolo avuto dal più anziano Roberto di Salle nell'attività preparatoria del primo Capitolo Generale della Congregazione che ebbe luogo a S. Spirito di Sulmona nel Giugno del 1275.

Roberto di Salle senior ricevette l'incarico da Pietro da Morrone di fare redigere dai monaci di Sulmona un transuptum del privilegio che aveva ricevuto dal Papa Gregorio X al Concilio di Lione allo scopo di farlo conoscere ai numerosi confratelli che avrebbero partecipato all'evento.

I dati relativi a Roberto di Salle senior sono, allo stato delle attuali conoscenze, limitati a questi due soli episodi mentre per quanto riguarda l'altro e più giovane Roberto di Salle, va subito evidenziato che nel 1287, un decennio più tardi dal primo Capitolo generale, farà ingresso nella Congregazione e, vestendo l'abito monacale, prenderà il nome religioso di Roberto di Salle, suo conterraneo e forse facilitatore della sua vocazione monacale.

La circostanza che il più giovane religioso di Salle abbia adottato lo stesso nome di Roberto di Salle, potrebbe far credere che il suo più anziano predecessore non fosse più in vita al momento della vestizione dell'abito monacale. Ma tale ipotesi sembra contrastare con quanto avvenne in epoca posteriore allorché il papa Bonifacio ingiunse al camerario papale Teodorico da Orvieto di dirigersi a Sulmona per condurre Pietro, che si trovava nella cella di S. Onofrio, a Roma. Ma, di fronte alla irreperibilità di Pietro da Morrone e nel luogo di Sant'Onofrio ed ai vani tentativi di scoprire il suo segreto nascondiglio, Teodorico decise di «far condurre a Roma due semplici frati che trovò nella cella; ma uno di loro non era in grado di camminare, si dice che allora si sia trascinato via l'altro, Angelo da Caramanico, e che lo abbia fatto rinchiudere in carcere dove morì». L'altro monaco, che non poteva camminare perché malato ai piedi, pare fosse proprio il più anziano Roberto di Salle che, assieme ad Angelo da Caramanico, era inseparabile compagno di cella e forse confidente di Pietro da Morrone. D'altra parte la eventuale ed ipotetica contemporanea presenza dei due omonimi Roberto di Salle sui monti della Maiella non fu di ostacolo al cursus honorum del più giovane Roberto, destinato ad avere un grande rilievo all'interno della Congregazione per le sue speciali capacità pragmatiche ed operative, lodate dal Petrarca, come fondatore di ospedali e per il peculiare percorso di vita spirituale che lo portò a essere elevato sugli altari come "Beato" della Congregazione celestiniana.

Ai fini del presente lavoro è sufficiente evidenziare che, dopo il trapasso di Pietro da Morrone avvenuto nel 1296, il suo più giovane discepolo Roberto di Salle almeno dal 1315 si trovava nel monastero di S. Spirito di Sulmona e che venne a L'Aquila per predicare e rincuorare i cittadini atterriti dalle scosse del terremoto. Due decenni dopo, come risulta testualmente dall'atto notarile del 1336, Roberto di Salle si trovava ancora a Sulmona con la qualifica di "Procuratore" del Monastero di S. Spirito di Sulmona "Religionis Beati Petri Confessoris de Murrone" ed in tale veste autorizzava frate Giovanni di Trivento "Priore" del Monastero di S. Maria della Maiella ad intervenire alla redazione dello strumento e a prendere possesso dei beni a favore «dell’Ordine di San Benedetto». La formula "Religione del Beato Pietro Confessore del Morrone" lascia trasparire anche che, per la prima metà del Trecento, i "priori" dei monasteri celestini - come acutamente rilevato dal Penco - continuavano a fare riferimento per la denominazione della propria Congregazione, alla figura di "Pietro Confessore del Morrone", e non alla figura del Papa Celestino V.

 

Le dinamiche evolutive dell'originaria comunità eremitica di Pietro da Morrone e la denominazione di tale comunità monastica nel corso della seconda metà del Duecento e nei primi decenni del Trecento, appaiono ancora oggi non sufficientemente delineate e meriterebbero ulteriori approfondimenti e precisazioni.

Seguendo la falsariga delle analisi, indicazioni e riflessioni contenute nei fondamentali studi del Pellegrini, ritengo possibile, per il predetto arco temporale - seconda metà del Duecento e primi decenni del Trecento - individuare due distinte fasi del movimento: la prima fase abbraccia gli anni (1250-1275) in cui Pietro da Morrone inizia la sua esperienza eremitica sulla Maiella (anni '50), ottiene dal Papa Urbano IV l'incorporazione di S. Spirito della Maiella nell'Ordine benedettino (anni '60), riceve dal Papa Gregorio X il riconoscimento per la comunità eremitica maiellese della qualifica di monasterium (anni '70). I documenti relativi a questa prima fase denominano la comunità eremitica di S. Spirito della Maiella come «Ordo sancti Spiritus de Magella».

La seconda fase ricomprende gli anni (1275-1294) che vanno dalla celebrazione del primo Capitolo generale della Congregazione (giugno 1275) sino all'elezione a Pontefice di Pietro da Morrone. Nei documenti di tale periodo si riscontrano le prime espressioni di «fratris Petri de Morrone» e appare per la prima volta nell'anno 1289 l'espressione "Ordo fratrum de Murrono".

Tale mutamento di denominazione sarà di breve durata perché, dopo l'elezione a Pontefice di Pietro da Morrone e la sua canonizzazione a Santo, la congregazione verrà definita, nell'anno 1315, con il titolo di "Ordo Sancti Petri Confessoris" e, un quinquennio dopo, il Capitolo Generale del 1320 approverà la denominazione ufficiale della Congregazione con il titolo di "Ordo S. Petri Confexoris de Murrono".

Osserva a tale riguardo Gregorio Penco che, sotto il profilo canonico, i monaci celestini «benché inseriti moralmente nell'Ordo Sancti Benedicti consideravano se stessi come appartenenti all'Ordine di S. Pietro de Murrono». I documenti di area molisana del primo Trecento fanno riferimento ed utilizzano sia la denominazione ufficiale (carta del 5 febbraio del 1321, citata dal Figliuolo) che quella di «Religionis S. Petri Confexoris de Murrono» (contenuta nello strumento notarile del 1336 che qui si annota); solo a partire dalla seconda metà del Trecento la denominazione ricorrente sarà quella di "Ordo Sancti Petri Celestini" con esplicito riferimento al Papa Celestino e non più a Pietro da Morrone.

 

Il documento consente anche di avere un quadro più preciso e dettagliato del contesto territoriale dell'alto Molise dove, in epoca Medioevale, nacquero e si svilupparono numerosi insediamenti dell'ordine Benedettino e quindi risulta utile non solo per ricomporre il tessuto topografico di una porzione piuttosto ampia del territorio ma anche per ricostruire la storia religiosa dell'alto Molise nei primi secoli del nuovo Millennio.

Occorre qui ricordare che il territorio altomolisano agli inizi dell'anno Mille risulta disseminato da una molteplicità di casali e da una miriade di minuscole strutture religiose (piccoli monasteri, eremi rupestri, spelonche naturali, chiesette rurali), in piccola parte soggette alla Badia di S. Vincenzo al Volturno ed in massima parte dipendenti da Montecassino in forza di specifici atti di donazione. Erasmo Gattola - con riferimento alla situazione del sec. XI quando gran parte del territorio, di pertinenza del castrum di Agnone, era di dominio della Signoria dei Borrelli - trascrive nella sua opera diversi documenti conservati nell'Archivio di Montecassino e tra essi la donazione del 1026 fatta da Odorisio Borrello «abitator in territorio de Sangro» a favore di [...]; la donazione del 1040 del territorio di Vallesorda e della chiesa di S. Nicola di Vallesorda fatta da Gualtiero Borrelli, figlio del Signore di Agnone, a favore del Monastero di San Pietro Avellana, prepositura cassinese; la donazione del 1083 fatta dal signore di Agnone Gualterio, figlio di Borrello, della Chiesa di San Nicola, alle sorgenti del Verrino, a favore di San Pietro Avellana.

L'affascinante impronta ed il consistente lascito morale dei valori di semplicità, umiltà e austerità impressi dalla cultura monastica benedettina, che si irradiava dalle non distanti Badie di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno (quest'ultima in territorio molisano), permarranno intatti con il successivo sviluppo socio-economico del territorio altomolisano la cui civiltà agro-pastorale assimilerà e valorizzerà il patrimonio culturale e spirituale benedettino.

Non è questa la sede per ripercorrere la storia minuziosa di tale orizzonte culturale, ma solo non fare calare l'oblio su alcuni clamorosi e riecheggianti eventi benedettini che, nei secoli immediatamente successivi (in epoca normanna ed all'inizio del regno angioino), hanno lasciato risvolti positivi di novità ed originalità attirando l'attenzione e l'interesse di insigni studiosi. L'intima essenza del mondo benedettino - penetrato nel comprensorio altomolisano e racchiuso nella prepositura del polo monacale di San Pietro Avellana - si riflette soprattutto nelle vicende del Monastero di San Nicola di Vallesorda e dell'eremo di San Giovanni di Montecapraro, la cui ubicazione trovasi menzionata, oltre che nell'atto di donazione del 1090, anche in un documento del 1092 («qui dicitur montem Caprarum, ubi remitorium bocatur»), che richiamano alle radici del monachesimo benedettino con la "Regola di Frate Ruele" studiata, oltre che dagli storici del monachesimo, soprattutto dai linguisti perché contiene uno dei primi brani che esprime la parlata volgare della popolazione altomolisana come la frase «sci scia excommunicatus» (si sia scomunicato). L'altro episodio che ebbe grande risonanza è connesso alle vicende del già menzionato Monastero di San Nicola di Vallesorda la cui permanenza nell'orbita cassinese venne assicurata in epoca normanna dal Conte del Molise Riccardo nel placito tenuto ad Isernia nel Febbraio del 1169.

Infine, in coincidenza della elezione a Papa di Celestino V, la discordia tra la prepositura cassinese di San Pietro Avellana e gli abitanti di Vallesorda venne composta con un lodo arbitrale emesso nell’anno 1294 dal milite Roberto di Taranto, designato dalle parti «iudex arbitrator», che scongiurò incomprensioni e divaricazioni tra le due anime benedettine, quella cassinese e quella morronese spalleggiata dai nuovi feudatari angioini di Agnone.

 

Il documento offre numerosi spunti agli studiosi di toponomastica dell'Abruzzo e Molise e conferma toponimi e località (Spogna, Piana Matteo, Colle Carbone) già citati nel precedente documento dell'anno 1040 pubblicato dal Gattola... Il raffronto tra l'atto notarile del 1040 e quello del 1336, redatto quasi tre secoli dopo, evidenzia anche che nei diversi casali sparsi nel comprensorio territoriale tra Agnone e Capracotta (Macchia, S. Croce, Monteforte, Capracotta) erano operanti, sin dal Trecento, diverse Chiese: l'«Ecclesia Sanctæ Mariæ de Crapacotta» retta dal «dominus Gualterius Archipresbiter Crapacottæ et dominus Nicolaus de Crapacotta litterati» che intervengono, come testimoni, alla redazione dell'atto notarile di donazione dell'Ospedale di S. Croce; l'«Ecclesia Fortis de Monte» o «Ecclesia Montis Fortis»; l'«Ecclesia Sanctæ Crucis»; l'«Ecclesia de Maccla» retta da un Archipresbiterius.

Tali testuali riferimenti alle Ecclesiæ elencate nello strumento notarile del 1336 risultano, in buona parte, confermati in modo concorde dai dati raccolti da Pietro Sella sulle Ecclesiæ che, in epoca medievale, corrispondevano le "decime" alla antica Diocesi di Trivento: la Decima dell'anno 1328 riporta, tra gli altri, i «Clericis de Monteforti tar. IIII», i «Clericis de Capracocta tar. VI», i «Clericis de Maccla tar. VI».

 

Lo strumento notarile del 1336 suscita interesse e contiene anche concreti elementi per risolvere due importanti tematiche dibattute dagli studiosi di storia locale: la frase «dominus Gualterius Archipresbiter Crapacottæ» pare sostenere ed avvalorare l'opinione degli studiosi di glottologia ed etimologia i quali ritengono che il moderno vocabolo "Capracotta" derivi dall'unione di due lessemi della lingua indo-europea: Krap (roccia) e Kott (ammasso); infatti una lunga sequela di rocce precipite, detti "dirupi", connota la posizione del primitivo luogo di insediamento abitativo, che verrà in seguito appellato "Terra Vecchia".

La ricostruzione glottologica ed etimologica conforta l'ipotesi che il termine Crapacottæ - riportato sia nella pergamena del 1083, conservata a Montecassino, sia nello strumento notarile del 1336 - sia il nome originario e più antico della località scelta per il primitivo insediamento abitativo (sicuramente in epoca normanna come strategico presidio dell'assetto difensivo della Contea del Molise) e che tale vocabolo sia stato trasformato successivamente, con inversione sillabica del parlato volgare tardo trecentesco, in quello più agevole a pronunciarsi di "Capracotta". In linea e perfetto accordo con i moderni studi glottologici sono anche le indicazioni delle antiche carte geografiche del territorio dell'Abruzzo: Antonio Magini nella sua carta "Abruzzo Citra e Ultra" compilata a Bologna nel 1620 e Joan Blaeu nella sua carta "Abruzzo Citra ed Ultra" compilata ad Amsterdam nel 1645 rappresentano il luogo montuoso con il nome di "Crapacotta". Per spiegare poi il significato della variante etimologica, Capracotta invece di Crapacotta, gli uomini di cultura e le autorità del luogo, certamente in epoca alquanto lontana da quella dell'originario insediamento del primo nucleo abitativo, presero surrettiziamente e impropriamente a prestito il rituale, di origine longobarda, del sacrificio della capra che, con singolare trasfigurazione e mistificazione rispetto alle originarie fonti narrative, sarebbe rimasta illesa saltando ed evitando le fiamme del fuoco ardente. Tale fantasioso ed improbabile mito fondativo, facile a fare presa sulle credenze popolari e tramandato oralmente dalle numerose generazioni del luogo che si sono succedute nei secoli, non ha nulla a che fare con il significato autentico ed originario del vocabolo Crapacotta anche se, in epoca barocca, verrà proficuamente recepito nello stemma e stendardo del Comune che raffigurano, come simbolo, la capra che salta sulle fiamme del fuoco ardente; egualmente troverà ingresso ed accoglienza nella Chiesa Madre dove, durante i lavori di ristrutturazione settecentesca dell'edificio, venne scolpito ai lati dell'altare maggiore e di quello della cappella di San Sebastiano, patrono del paese.

L'altra tematica attiene all'epoca di fondazione della Chiesa di Capracotta di cui la frase «dominus Gualterius Archipresbiter Crapacottæ» rende certo che la Chiesa matrice di Capracotta affonda le sue radici nel Medioevo. Luigi Campanelli, prestigioso storiografo e più volte Sindaco di Capracotta nel primo Novecento, afferma che «è sconosciuta peraltro l'epoca primitiva in cui furono eretti quei due sacri edifici (la Chiesa Madre e la Cappella di S. Maria di Loreto); vane sono riuscite le indagini di chi scrive». Grazie al tenace impegno e passione dello Zanotti, siamo ora in grado di affermare l'esistenza sin dal Trecento della principale Chiesa di Capracotta, edificio divenuto imponente a seguito degli accrescimenti e ristrutturazioni avvenute nel corso dei secoli XVI-XVIII.

L'espressione sopra riportata, oltre a fissare in epoca medievale l'origine della Chiesa, rende poco plausibile e consistente l'opinione espressa da Geremia Carugno colto prelato e stimato Parroco della Chiesa Madre nel secondo Novecento, il quale fa risalire l'origine della «Ecclesia Sanctæ Mariæ de Crapacotta» al sec. XVI; lo studioso, infatti, perviene a tale ipotesi «per congettura: se si parte dal 1522 e si ammette come storica quella data con la presenza del primo Arciprete di Capracotta, bisognerà riportare quanto meno ad un decennio indietro (1510 approssimativamente) i tempi della costruzione».

Non poteva in quel tempo immaginare l'esimio e dotto prelato che, oltre il documento della numerazione dei fuochi del 1522 su cui poggiava la sua ipotetica opinione, in un monastero di Agnone, suo paese nativo, si trovava anticamente lo strumento notarile del 1336, trascritto dallo Zanotti, capace di dare una esauriente risposta alle domande che molti a lui rivolgevano: "dove e come era l’antica chiesa del paese" e "quando fu costruita".

 

Last but not least, «lo strumento notarile riveste una straordinaria importanza sotto il profilo storico-giuridico in quanto contiene riferimenti testuali ad alcune regole che disciplinavano l'istituto della donazione in epoca medievale». Anzitutto la necessità della presenza, al momento della redazione dello strumento notarile, di un giudice, anche se illetterato, presidio della regia autorità e garante della legalità dell'atto, perché probabilmente i notai medievali erano privi della bona fides; poi la rinuncia degli stipulanti ad ogni azione giudiziaria di nullità o revoca della donazione con la previsione delle sanzioni in caso di violazione del patto; il testuale richiamo alla donazione ultra dimidium e cioè alla «donatio ultra quingentos» applicata senza l'osservanza della procedura di "insinuazione" ossia delle formalità di registrazione; infine la deroga alle regole della competenza giurisdizionale in quanto giudice competente era quello del luogo in cui si stipulava l'atto - giudice di Agnone - e non quello del Casale di S. Croce.

Le necessarie e contestuali presenze di Notai e Giudici per chi intendeva fare testamento o donazioni, in epoca medievale, è descritta efficacemente, con riferimento alla peste dell'anno 1353 dell'Aquila, nell'opera poetica di Buccio Di Ranallo con la quartina della stanza 783 che il curatore Carlo De Matteis così annota: «Aveste visto la fretta nell'andare a giudici o a notai, di notte e di giorno, da parte di chi intendeva fare testamento»:


Or chi vedesse prescia a giudici e notari,

che era nocte e iurnno dalli testamentari;

e illi consideranno petiano asai denari

testimoni medemmo, a trovare erano cari.


Alfonso Battista

 

Fonte: A. Battista, Un frammento di storia medievale dell'Appennino altomolisano: la donazione dell'Hospitalis di S. Croce del Verrino, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 109, L'Aquila 2018.

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