Molti capracottesi furono trapiantati dalle loro dimore a causa della II Guerra Mondiale. Conseguentemente, il destino portò alcuni molto lontani dal loro paese natio. La mia famiglia fu una di queste. Voglio innanzitutto ringraziare entrambi Enza, mia sorella maggiore, ed anche Carmine, il mio fratello maggiore, per le loro rimembranze dell'autunno del 1943 poiché io ero ancora bambino.
Ecco, le memorie personali di famiglia che voglio condividere con voi...
I Tedeschi presero Capracotta il 9 settembre del 1943. La confusione regnava in paese. Moltissime famiglie decisero di partire, specialmente quelle fortunate ad avere parenti o familiari che li accoglievano. I soldati tedeschi perlustrarono tutte le case in cerca di uomini per arrestarli. Mio padre e mio zio, grazie all'aiuto di una vedova vicina di casa, si nascosero in uno ripostiglio in soffitta al quale si accedeva tramite una botola segreta. Rimasero nascosti per più di due giorni e finalmente uscirono fuori alla partenza dei soldati.
All'arrivo degli Inglesi (parte delle Forze Alleate) nella primavera del 1944, il paese si trovava in subbuglio. Tutti fummo informati dell'imminente inizio dei bombardamenti e nello stesso tempo esortati a tenerci pronti per l'evacuazione. Mio padre preparò la nostra famiglia per il trasporto nei camion delle Forze Alleate.
Ci portarono a Campobasso, negli accampamenti a tende per un paio di giorni, poco tempo dopo fummo caricati negli sporchi treni di trasporto, senza sedili, stesi per terra durante tutto il viaggio. Durante questo periodo d'evacuazione mangiammo solamente pane duro e del formaggio. La nostra destinazione fu Campi Salentina in provincia di Lecce, nella Puglia.
Vivevamo in un convento che serviva anche da ospizio ed eravamo in sette. Cinque fratelli e due sorelle. Mio padre trovò lavoro con i soldati americani. Portava a casa cibo americano e noi piccoli eravamo contenti. Le suore del convento ci volevano molto bene e gli anziani giocavano sempre con noi. Mamma e papà cominciarono a fare conoscenze.
Sebbene contento del lavoro che faceva con le Forze Americane stazionate a Campi Salentina, il sogno di mio padre era sempre quello di riportare la sua famiglia a Capracotta. Quando la guerra finì prese la decisione di farlo.
Nessuno di noi si poteva immaginare quello che vedemmo al ritorno in paese. Lo shock subentrò nel vedere la nostra casa diroccata. Vivemmo in queste condizioni per molti mesi. Nonostante tutto papà non perse mai il coraggio e con le sue proprie mani intagliava mobili, sedie e stoviglie usando i rami degli alberi, sempre intento a ricominciare una nuova vita.
Purtroppo queste dure esperienze lo portarono a decidere di spostarsi e questa volta a Latina, nel 1950. Trovò lavoro in un caseificio. La famiglia era anche cresciuta, adesso eravamo in otto. I quattro maggiori iniziarono a lavorare in mestieri diversi, i piccoli frequentavano la scuola.
Era la fine del 1956. Grazie alla cittadinanza americana di mia madre, avemmo l'opportunità di venire in cerca di una nuova vita in America.
Ci sistemammo a Burlington, nello stato del New Jersey, nel luogo dove nel 1911 mamma, Elena Sozio, era nata. Qui in America, facendo uso dell'arte e mestieri imparati in patria iniziammo un nuovo capitolo di vita.
Con la forza del lavoro e l'aiuto di Dio tutti ottenemmo successo. Malgrado i lunghi anni di separazione dal nostro paese ci sentiamo ancora oggi molto attaccati e vicini. Basta entrare nelle nostre case o posti di lavoro per ammirare le nostre fotografie ed artefatti che ci riconducono a Capracotta. Nonostante le migliaia di miglia che ci tengono lontano dalle nostre radici, le memorie del nostro paese di nascita rimarranno per sempre vive e strette nel cuore.
Il mio paese
Se proprio lì si nasce e lì si muore
uno tutto questo non lo può capire,
questo che tutti noi portiamo nel cuore
da quando che siamo partiti da quel Paese.
Ma solo se si pensa a queste belle antiche chiese,
a queste case tante bombardate e messe a terra,
sì quel '43 da quella guerra,
a ripensare a quei prati alberi e pinete che lo circondano.
E poi d'inverno è festoso lo stesso
con un mantello bianco che lo copre,
la neve che lenta cade a fiocconi
e i giri degli uccelli cercano i bocconi.
Mi sembra un sogno da quel dì lontano
eppure quando ritornai quella mattina
mi sembrava accogliermi con una orchestrina
e piú che entravo dentro a quelle stradelle
come una Mamma sembrava che mi abbracciasse
ed io me ne andavo in armonia
contento di rivedere Capracotta mia!
Giuseppe Paglione
Fonte: G. Paglione, Emigrati ma non dimenticati, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.