A Capracotta non si capita per caso. E non solo perché sia piuttosto "fuori" rispetto alle linee di transito turistico, dell'industria del consumo, del divertimento e del relax; stazione sciistica minore rispetto alle pur non lontane mete dell'Appennino centrale. Roccaraso, per esempio, che da Capracotta non è poi così lontana ha, diciamo così, una diversa vivibilità, destinata ad accogliere clienti più mondani. Lì il territorio, quello proprio delle pietre e della terra, delle acque e delle piante; il meno antropizzato, insomma, oggi è solo quel che resta degli spazi non utilizzati dall'edilizia della vacanza, piste incluse. Anche nella bella stagione è più facile ed accattivante raggiungere altre mete, pur scegliendone di montane, a cercare rifugio dalla calura. È che Capracotta ha davvero poca "vetrina". A Capracotta ci devi proprio voler andare. A me, che è successo di partire da un grande paese appena a nord di Bari, a bordo della mia auto e rinunciando per scelta alla veloce autostrada, è toccato di attraversare strade ormai desuete al grande traffico, frequentate quasi solo da mezzi destinati al lavoro. Attraversata con qualche fatica Campobasso, puntando verso Pescolanciano, direzione Vastogirardi poi lasciata ad ovest, la segnaletica indica bene la bella Agnone, famosa per campane, e solo un po' più avanti, la deviazione per Capracotta. Gli ultimi chilometri, però, appagano di tanto labirintico affanno. La strada provinciale sale sicura, snodandosi sinuosa e aprendo a panorami montani silenziosi e placidi, larghi e chiari, a perdita d'occhio, pur con la corona dei vicini monti. E sì che siamo a quota 1.421! Il paese, tuttavia è ancora invisibile per un bel tratto di strada così che quando le prime case appaiono da lontano, introdotte da un grazioso giardinetto, si ha la gioiosa sensazione di aver ottenuto un dono.
Io ci sono andata per la prima volta nel giugno del 2009 per tante pressanti ed inquiete sollecitazioni: la ricerca di un posto antico di montagna, il sogno di un ecovillaggio, vecchie tentazioni femministe, nostalgie anarco-libertarie, qualche promessa di una possibile vita da vivere prendendomene cura. Ma fin da quando ho imboccato la strada che porta diritta al paese mi è sembrato di aver perso, curva dopo curva, tutte quelle buone ragioni. Capracotta mi apparve, nella breve sosta orientativa di coordinate stradali ed emotive, sospesa e immobile, come assorta, nel paesaggio ondulato e plastico, nell'aria frizzante e inondata di sole. La casa-laboratorio, costruzione torre di "Vivere con Cura", mi accolse con la facilità delle cose buone, con la semplicità del fare famiglia, con la seria giocosità delle scoperte importanti. Il tempo di tirar fuori la felpa più pesante ed ero... a casa.
Nelle successive ore dei pochi giorni seguenti, nei quali sono rimasta quella prima e poi le altre volte ancora, andavo realizzando, piano piano e a poco a poco, quello che poi mi è sembrato di poter individuare come "cifra" caratteristica di questa casa e di Capracotta insieme. Un entrare ed uscire, un viavai di persone, volti e corpi, giovani, vecchi, bambini, rughe, sorrisi, capelli bianchi, radi, folti, chiacchierate, letture, musiche, odore di pane, di erbe, di fuoco, suoni di campane e campanelli. Ogni volta gruppo, ogni volta sinceri incontri di compagni di strada. Entrare e uscire dalla casa al paese e dal paese alla casa era ed è un tutt'uno, una rete senza soluzione di continuità, nell'avvicendarsi e mescolarsi di storie, piccole e preziose. Doveva essere così la vita di una volta! Entrando a piccoli passi nella quotidianità della piccola comunità, a pranzo da amici, al bar per un caffè caldo, all'orto botanico con bimbi e mamme, al ricovero con gli anziani del paese, portandoti dietro tutti i ferri del mestiere: cesti per raccogliere, bacche e piante officinali, argilla e semi profumati, tu conosci il paese e riconosci voci e volti. Benché nascosti dal pudore della gente di montagna, allora, tra le pieghe delle rughe della pelle, cominciano a prender corpo anche i fatti, le storie, e si animano di aneddoti, dicerie, leggende: è il salvataggio della memoria nella tradizione orale che salva il passato consegnandolo al presente, in una trama ordita all'infinito. Ora, si sa, a tessere sono state da sempre le donne. Si sa che senza le donne la trama non s'intreccia con l'ordito e i racconti restano laceri e senza suono. Io ne ho conosciute due davvero singolari. Madre e figlia assai avanti negli anni, vivono nella cura della casa nella campagna, della piccola stalla e di un piccolo pollaio. Sono rimaste sole, dicono; gli uomini non ci sono più: la vita se li è portati via ed ha lasciato lì, ferme, loro due. Ma da queste parti pare che le donne da sempre restino e che gli uomini da sempre vadano. Perché gli uomini erano pastori e camminavano per tratturi in transumanza. Verso le masserie dell'alta Puglia, in provincia di Foggia, uomini e ragazzi, non appena non si è più bambini. O facevano i carbonai, e partivano lo stesso. In paese solo artigiani, negozianti, parroco e sacerdoti, maestri, medico, segretario comunale... e qualche signore benestante. Restavano forse a... vegliare sulle donne? Che poi le donne avessero bisogno di protezione, è tutto da vedere; pare che le donne, insieme, sappiano proteggersi straordinariamente bene; che, anzi, quella maschile, qualche volta, più che protezione abbia tutta l'aria di essere un controllo. Ma poi difenderle da chi, se non da altri, pur sempre, uomini? E che protezione è mai quella quando chiude le mura domestiche per nascondere violenze e tendere trappole mortali? Le donne si incontrano, meglio se sono più libere da obblighi maritali, quando i mariti si allontanano col gregge. Strappano il tempo alle faccende domestiche e con un fagotto di lana o... "vivo" vanno dalle altre donne di famiglia: mamme, sorelle, zie, comari.
Qualcuno ha scritto «Gli uomini relazionano a piramide e organizzano comunità gerarchiche di potere; le donne relazionano in piano e organizzano comunità educanti». E sì, che raccontano di soprusi e di violenze, tirannie, abusi. Le donne raccontano ciò che gli uomini tacciono, storie che fanno vergognare e forse piangere. Storie come questa, portate addosso e cucite come una seconda pelle.
Per esempio a Capracotta son vissuti fino a qualche decennio fa, una moglie e un marito che per convenzione chiameremo con falsi nomi: Bianca e Bruno. Bruno era un bravo artigiano; lavorava il legno e scriveva poesie. Voleva sentirsi libero di poter scegliere il lavoro e il committente ed era talmente poeta che lasciava qualche ora per le letture e i versi. La sua bottega, come d'uso, sotto casa. Sua moglie gli era fedele per... necessità: non che fosse brutta, anzi! Lui l'aveva sposata tardi, quando, dopo aver passato diversi anni in America, se ne era tornato al paese e cercava moglie. Bianca, non più giovanissima, non era sposata né promessa. La cosa poteva non esser grave, quel che era grave, piuttosto, era la ragione, non detta, di questa condizione. Quando era ragazza era accaduto che Bianca avesse perso la "purezza" e quindi l'onore. Successe in occasione della festa del paese, durante la processione, in pubblico. Tra i fedeli che seguivano la statua c'era anche lei e fu così che sotto gli occhi di tutti un ragazzo, certo uno spasimante, approfittando del fatto che la donna era in qualche modo "bloccata", le si avvicinò e lanciandole addosso un telo tentò di baciarla. Bianca visibilmente si sottrasse e forse nulla accadde, se non che questo orribile evento dette adito ad un vero processo; una cosa durata così a lungo da non aver avuto esito né sentenza alcuna. Per quella condanna sospesa, di fatto nessun uomo pensò poi di chiederla in moglie. Vittima due volte, quindi, Bianca; nell'aver subito l'assalto e nell'essere restata nubile. Fino a quando Bruno, pur avendo al suo ritorno conosciuto questa circostanza, non la chiese in moglie comunque, forse spinto dalla necessità. Ma forse Bianca fu vittima tre volte e la terza fu dell'esser maritata a quel marito che la trattò sempre solo come una moglie: ultima creatura nella graduatoria dei suoi valori, certo dopo il suo creativo lavoro, le chiacchiere con gli amici e la sua passione per le rime. Bianca: lei aveva finalmente preso marito e forse persa la libertà. Bisognava che fosse restata nubile per non essere dominata? Se ne raccontano di storie a Capracotta. Quella che sto per raccontare, ancora una volta ha a che fare con fatti di donne e comincia con riferimenti precisi di cronaca locale, altro che chiacchiere.
Era il 1974 e a Capracotta la vita politica era vivace. Il paese attraversava il suo '68, con qualche anno di ritardo, è vero, ma qui tutto è più lento, anche il tempo delle rivoluzioni. Nel '74 dunque, sull'onda lunga della stagione di protesta, molti giovani di Capracotta costituiscono un Collettivo di paese. Si incontrano, dibattono le grandi questioni e lottano intanto per conservare l'apertura quotidiana della Farmacia Comunale, cosa che incontrava varie difficoltà. Tra i diversi partecipanti, militanti di sinistra, uomini di lotta dura e di chiassose goliardate, ce n'è uno, anziano, dal temperamento un po' diverso; silenzioso e sensibile, le sue idee di giustizia sociale non avevano la rigidissima intransigenza dell'ortodossia. Attento alle piccole cose, certo doveva pensare che non esistono solo le grandi sfide e che la politica vera si fa a partire dal prestare voce alle storie di ingiustizia ridotte al silenzio.
Fu forse questa la ragione per cui una sera questo amico volle raccontare, quasi come una confidenza, in privato, la storia di un riscatto personale conseguito da una donna. Una sorta di denuncia e di postuma rivendicazione di giustizia, un fatto piccolo e importante, strappato così al mutismo e alla dimenticanza. Eccolo.
Siamo agli inizi del secolo scorso; primo '900. Nella varia compagine sociale di Capracotta, come dappertutto, si trovano uomini di ogni posizione e condizione: abitano poveramente la prima modernità i paesani, e resistono ancora, nelle campagne, i signorotti proprietari di terre e masserie. Oggi non sono più tanto abitate queste costruzioni, sono raggiungibili dal paese in qualche minuto, in auto; una volta non era così. Una volta la masseria era tanto distante dal paese da poter includere le terre coltivate e non tanto da non poter essere raggiunta per il lavoro quotidiano. Poteva essere facile che dal paese venisse in masseria manodopera per i lavori stagionali o per qualche lavoro occasionale, anche domestico, richiesto alle donne. Il signorotto locale della nostra storia, offrendo lavoro a uomini e donne, contribuiva certo al possibile benessere delle famiglie locali, ed era perciò garanzia di una qualche stabilità economica. Non si poteva che esserne grati e riconoscenti e benedirne la presenza. Perciò passava opportunamente sotto silenzio l'abuso fatto alle donne che il signore chiamava presso di sé con la scusa di "lavori" e che poi tratteneva e molestava con la complicità di una serva. Avrebbero potuto ribellarsi le vittime? Parlarne? Ammettere disonore e vergogna? Se l'avessero fatto non avrebbero soltanto sottratto alla famiglia un pur minimo contributo ma sarebbero state accusate di facilità di costumi, additate come donne svergognate e perdute, ammesso che si fosse dato loro un qualche credito! E così l'usanza andava avanti al sicuro da ogni denuncia. Caso mai se ne parlava altrove, tra uomini al Circolo, dove la cosa poteva destare ammirazione e onorevole vanto, nonché tutti i colori dell'emulazione.
In una circostanza la cosa, però, andò assai diversamente. Andò che una giovane donna, invitata alla masseria con una qualche promessa di lavoro, reagì prontamente al tentato sequestro. Pare che non appena la serva avesse chiuso la porta per evitarle l'eventuale fuga e permettere così al suo padrone indisturbate molestie, ella stessa, la serva cioè, fosse dovuta prontamente correre a riaprirla all'ordine urgente e spaventato del signorotto che le urlava «Jeàpre, jeàpre, ca mó m'accìde!» (Apri, apri, che adesso mi uccide!). La ragazza, dunque, non si era piegata alle profferte e si era evidentemente difesa dagli assalti offensivi, in maniera proprio decisa e forte, sferrando pugni e calci con tutte le sue forze. Così andò quella volta; che il signorotto non solo non poté godere dei soliti piaceri proibiti ma ebbe dalla sua vittima quel che gli avrebbe tolto ogni vanto nel parlarne, per dolersi della sua sventura. Ma la storia non finisce qui. La prigioniera, intanto, approfittando dell'uscio aperto e della impedita disinvoltura del suo antico aggressore, fuggì velocemente in paese dove, piuttosto che tacere, ebbe il coraggio di raccontare l'accaduto alle altre donne. È certo che molte di esse si riconobbero nelle simili circostanze; così che la denuncia diventò corale tanto che il signorotto fu costretto a lasciare la masseria ed il paese, per sempre. Togliendo certo qualche compenso per lavori stagionali ma restituendo alle donne dignità e fierezza.
Di questa storia, a Capracotta, non c'è traccia alcuna. Della donna non si conosce neanche il nome. Solo la rotta omertà dell'amico la ha salvata, e la tradizione orale, ben più forte dell'altra, l'ha consegnata a queste pagine. Di Aracne il bel mito narra di come, per aver vinto nell'arte della tessitura di una straordinaria tela, in cui erano meravigliosamente ricamati gli amori degli dei, fosse stata, per dispetto, trasformata in ragno dalla sua stessa rivale che ella aveva osato sfidare: la divina Atena. Ma a ben vedere la condanna di Aracne non fu quella di diventare un insetto bensì di restare "per sempre" a tessere racconti, immortali con lei, benché appesi ad un filo! Anche questa storia, allora, vissuta e denunciata da una donna ad altre donne, poté essere per una volta raccolta e raccontata e raccontata ancora. Perché solo in questo modo la cultura orale si arricchisce di un valore in più, quello della comunicazione passata e condivisa senza distinzioni di sesso e gerarchie, e può promuovere una relazione di crescita che scelga la memoria come cura. Perché possa essere "esperienza" quella che, attraverso la cura della memoria, cura la vita.
Anna Montaruli
Fonte: A. Montaruli, C'era una ri-volta a Capracotta..., in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.