Tutto ebbe inizio, o meglio... tutto ebbe fine, quando il dramma cominciò ad accrescere con il frastuono delle porte che sbattevano delle poche case ormai abbandonate e vuote, il rumore incessante delle sirene e delle camionette anglo-americane alleate che esortavano ed obbligavano il popolo capracottese, in preda al panico, ad andarsene per trovare un posto sicuro dove rifugiarsi - uomini, donne, bambini compresi - per scampare a quella guerra che stava strappando loro tutto ciò che avevano costruito, tutto ciò di cui non avrebbero fatto più a meno e che avrebbero rimpianto.
«Molti di loro – racconta ancora Antonio Di Nucci – si incamminarono per la strada per Agnone, cercando qualcuno che li accogliesse e molti addirittura rimasero vittime delle mine o di altri incidenti di guerra: ricordo che un musicista perse la vista ma riuscì comunque a vivere la propria vita insegnando e scrivendo libri, fino a morire all'età di 82 anni. Molti altri persero l'uso di entrambi i piedi, come il nonno di un mio compagno».
Il paese, non più difendibile, era oramai vuoto poiché i capracottesi cominciarono velocemente ad allontanarsi: ci fu chi scelse un luogo vicino, Agnone, per l'appunto, e chi decise di spostarsi, attraverso un percorso molto più lungo, per arrivare nelle Puglie, precisamente a Brindisi.
«Antonio con un cavallo e una decina di persone della sua famiglia si rifugia ad Agnone, e, particolare non da poco, porta con se un po' di quella carne di maiale che aveva salvato dalla requisizione dei tedeschi, quell'inverno fu durissimo con tanta neve e poco cibo. Rimasero ad Agnone dal dicembre 1943 al marzo del 1944, quattro mesi terribili poi il tuono dei cannoni si affievolì ed il Comando inglese consentì ai più giovani e alle famiglie che avevano le case ancora in piedi di fare ritorno in paese», come è testimoniato da Roberto Geminiani nel racconto "La guerra di Antonio", narrante la vicenda di Antonio Dell'Armi, caporal maggiore del primo reggimento dei bersaglieri, classe 1915.
Furono tanti i luoghi dove gli sfollati cercarono riparo, dove riuscirono a ritrovare un po' di conforto, un briciolo di tranquillità che per troppo tempo si era assentata dal loro animo.
Una volta riconquistato l'intero territorio dalle truppe alleate: «Il sei dicembre – scrive Corrado D'Andrea – ci fu l'ordine inglese di sgombrare il paese: "Tutti quelli che non sono considerati necessari dal comando alleato si debbono preparare per partire subito". I carabinieri da poco rientrati in servizio giravano di casa in casa per convincere tutti ad andare via. L'otto dicembre lo sfollamento era quasi completo. Una parte di capracottesi si rifugiò nella vicina Agnone. La maggior parte venne trasportata su camion nelle Puglie... A Capracotta intanto erano restate sol settentacinque persone che potevano girare per il paese con un speciale permesso».
Ma, prima di ciò, intere famiglie si trovarono a vagare incessantemente, a camminare per chilometri e chilometri, al freddo e al gelo, con poche riserve di cibo e tanta stanchezza, costretti addirittura a dormire in posti angusti e spiacevoli dove più che riposare accrescevano la loro tristezza e la nostalgia di casa.
«I nostri profughi – precisa nelle sue memorie Ugo Mosca – furono accolti di solito affettuosamente dalle popolazioni dei paesi vicini, anche se con le inevitabili difficoltà del condividere insieme tante miserie; ma quelli che andarono in Puglia... vissero per tutto l’inverno tra grandi disagi».
Soprattutto i primi giorni dell’esodo furono i più difficili, perché in un certo senso ognuno doveva pensare per sé.
«All'epoca – ci racconta Bianca Santilli, classe 1935, nella sua drammatica testimonianza – avevo appena 8 anni, la prima casa che vidi distrutta fu proprio la mia. Con la mia famiglia, genitori e fratelli, partimmo per cercare un primo rifugio a Staffoli. Ricordo che mi misero nello zaino di Michelone, l'operaio fidato di mio padre, e mentre lui camminava io guardavo incantata i colori del paesaggio intorno. Passammo alcune notti nel silos, ed era tremendo. In una di queste notti, sentimmo un tonfo molto forte e per lo spavento caddi su cinque maiali terrorizzata all'idea che potessero mangiarmi. Sentimmo l'esigenza di partire per Agnone, pur essendo a piedi nudi: le stoffe della mamma non bastavano per tutti. Attraverso i tratturi, arrivammo alle masserie prima di Agnone, ma nessuno ci aprì. Una volta giunti al paese non fummo presi in considerazione da nessuno. Fortunatamente avevo una zia in Agnone, la signora Chiarina Quaranta, la quale ci ospitò; mi piaceva stare a casa sua, avevo già all'epoca una passione innata per la pittura, e ricordo che restavo a fissare un quadro ottocentesco per ore e ore».
E ancora...
«La strada che condusse ad Agnone fu colma di sofferenze – ricorda invece Luisa De Renzis – perché molti uomini, oltre ai beni perduti, sembravano avere perso anche la speranza di poter continuare a guardare oltre l'orizzonte; in molti si sentirono incapaci di rimirare le nuove albe dai colori rosati ed i tramonti dalle sfumature cangianti, come se la dolorosa esperienza bellica avesse sbiadito i toni dell’iride e tutto prendeva la configurazione di un film muto, in bianco e nero: niente più voci, niente più colori!».
In effetti molti agnonesi si ritrovarono ad accogliere i capracottesi; in svariati modi diedero loro quello che avevano, condivisero la casa, il cibo e qualche parola di conforto, seppur oltre le loro possibilità, anche economiche, rischiando di mettere in crisi quello che era un paese fiorente e abbastanza sviluppato rispetto ai limitrofi.
«Quando partirono da Capracotta ed entrarono ad Agnone – racconta Rosa Angelaccio D'Aloise, classe 1934 – arrivando naturalmente a piedi, i "grandi" mandarono avanti i bambini perché loro avevano "paura". Entrarono dalla porta vicino Sant'Antonillo; la prima sera dormirono a casa di una zia e poi fittarono casa. Si fermarono da metà novembre fino alla metà di marzo, quando tornarono a Capracotta sempre a piedi passando però per Staffoli. Soffrirono molto il freddo, nella stessa casa c'erano più famiglie, ogni famiglia dormiva tutta insieme in un’unica stanza».
Secondo chi invece si trovava ad Agnone, come Paride Bonavolta – agnonese di antiche origini capracottesi – entriamo nell'ottica di coloro che i fatti li hanno vissuti e visti accadere sotto i loro occhi, proprio nel ruolo di quelli che avevano offerto aiuto e alloggio:
«Per mia esperienza diretta dei fatti, essendo in Agnone, ricordo che si temeva che anche la nostra città sarebbe stata distrutta dai tedeschi che già avevano approntato l'occorrente. Proprio per questo nella mia famiglia, alla quale peraltro era stata requisita la casa di campagna, si era predisposto un piano di rapida evacuazione. Quando nella notte sentimmo saltare i ponti e la ferrovia tememmo che la distruzione sarebbe proseguita con il paese. Ma quei boati notturni segnarono invece una imprevista evacuazione tedesca dal paese. Per gli esuli capracottesi, posti di fronte a scelte alternative, Agnone, tanto nel novembre con la minaccia di estensione della "terra bruciata", che successivamente nel dicembre del '43, con il fronte non lontano, avrebbe rappresentato un rifugio più precario rispetto a quello previsto e pianificato nel dicembre nella parte "liberata" del Paese».
Tutto questo costituì un intero anno di caos, caratterizzando così il drammatico Exodus degli sfollati capracottesi, ovvero il periodo che si protrasse fino al 1944 quando come sostiene Corrado D'Andrea nel suo racconto: «a febbraio gli sfollati cominciarono a rientrare a Capracotta, e a maggio gli angloamericani lasciarono completamente il paese».
Francesco Paolo Tanzj
Fonte: F. P. Tanzj, La storia che ci unisce, S. Giorgio, Agnone 2015.