Il sestante (in lat. sextans) era una moneta in bronzo emessa durante la Repubblica romana. La moneta valeva un sesto dell'asse, cioè 2 once, tanto da esser caratterizzata da due globuli che ne indicavano, numericamente, il valore legale.
Il mio amico F. A. ne ha trovata una, qualche anno fa, in territorio di Capracotta, grazie a un comune metal detector, ad appena una decina di centimetri dal suolo. Non è tanto la moneta in sé a destare il mio interesse, men che meno il valore commerciale o numismatico, piuttosto il luogo preciso del rinvenimento: l'ex monastero di S. Giovanni Capraro, proprio a due passi dall'acquasantiera, dal pozzo e dalle mura perimetrali di quell'antico presidio benedettino. E che, a questo punto, forse esisteva ben prima che si diffondesse la regola di san Benedetto da Norcia (480-547).
Che la moneta fosse a poca profondità dalla superficie del terreno lo si può spiegare col fatto che, riposando esattamente sulla cresta di Monte Capraro, gli agenti atmosferici hanno via via sciolto il fango soprastante piuttosto che accumularlo, come invece sarebbe accaduto a valle. Tuttavia, la moneta era interamente ricoperta da una spessa patina e soltanto dopo una lunga pulizia sono emerse le effigi e la scritta.
Il sestante in questione, infatti, è del tipo più comune, con la testa di Mercurio al dritto e la prora di una galera al rovescio, e l'inequivocabile dicitura ROMA che, cronologicamente, lo inquadra fra il 217 e il 211 a.C. Questa moneta era diffusa in molte città dell'Italia centrale, il che porta a pensare che Capracotta, sul finire del III secolo a.C., stava completando il suo processo di romanizzazione, che sarà definitivo allorquando, una manciata di anni dopo, un rito apotropaico di devotio assegnerà un nome a quelle aspre alture: Capræ Cottæ, le capre di Gaio Cotta.
Ma veniamo alla questione del monastero, la cui presenza è attestata poco dopo l'anno Mille grazie al Registrum Petri Diaconi conservato a Montecassino e, a cascata, grazie a una serie di cause e donazioni che investirono tutti i presìdi religiosi a quel tempo attivi sulla dorsale del Capraro: la Chiesa di S. Nicola di Vallesorda, la Chiesa dei SS. Simone, Giuda e Lucia, fino alla Chiesa di S. Giovanni oggi in territorio di San Pietro Avellana e ad altre badie di cui s'è totalmente persa memoria: la Chiesa di S. Lorenzo, la Chiesa di S. Pietro della Serra, la Chiesa di S. Angelo, la Chiesa di S. Stefano e la Chiesa di S. Martino.
Il ritrovamento di un sestante romano all'imbocco del nostro monastero potrebbe allora rafforzare la mia ipotesi secondo cui la piccola badia di S. Giovanni Capraro sorgesse su una precedente struttura di epoca romana, non per forza di tipo religioso. Lì stava forse un posto di guardia o - e qui entriamo nella parte più avvincente della faccenda - lì era eretta quella «columna marmorea, que finis fuit de jam dicto comitato Ysernino», menzionata in un manoscritto dell'anno 964: quella colonna marmorea che, ben prima dei Longobardi, segnava il termine del territorio d'Isernia. Dissolto l'Impero romano, i benedettini non fecero altro che sostituire il pilastro, simbolo della Roma pagana, con un cenobio religioso che mandasse in deliquio le divinità romane e che effettivamente conobbe l'apogeo soltanto tra l'XI e il XII secolo.
Può, allora, una semplice moneta di bronzo raccontare una storia lunga oltre due millenni, coinvolgere tanti elementi (storici, religiosi, politici, architettonici) i quali, legati assieme, riescono a spiegare la Capracotta attuale?
Francesco Mendozzi