Arrogante, vanitosa e lustra, con un filo d'inquietudine e un che di provvisorio. Così sarebbe apparsa la borghesia romana a passeggio in un pomeriggio qualsiasi dell'estate 1940: grand commis di Stato, trafficoni, cinematografari, consiglieri che portavano a spasso in bicicletta le loro candide divise istoriate, tra due ali di sfaccendati seduti a gustare coppe di gelato ai caffè di via Veneto. I capelli neri, appiccicati di brillantina, con la riga in mezzo alla Vittorio De Sica. La gioventù portava scarpe e giacche made in Usa, beveva whisky e pronunciava parole americane nell'accento romanesco, che dà a tutto un tocco di sufficienza e di noia. «Se vedemo ar picchinicche». Ci si salutava così dandosi appuntamento a Capracotta. Le località turistiche erano modeste e caserecce ma ci andavano in pochi. Non si esibiva ancora la fuoriserie. Si andava su e giù in bicicletta. Non era nemmeno borghesia, perché a Roma una vera borghesia non esisteva; ma solo il generone che s'adattava a tutto.
Davanti al Flora, racconta Indro Montanelli, un intellettuale Pasquino faceva la parodia del Duce. Gli «otto milioni di baionette» su cui Mussolini aveva dichiarato di poter contare nella difesa dei confini italiani diventavano più realisticamente "otto milioni di biciclette". I gerarchi seduti ai tavoli ascoltavano e si divertivano. Cominciavano a riderne anche loro.
Romano Bracalini
Fonte: R. Bracalini, Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel Ventennio, Mondadori, Milano 2007.