C'era una volta una donna con tre figlie. Un giorno, non avendo da mangiare, disse alla maggiore d'andare per cicorie in un prato vicino. La figliuola obbedì; ma, mentre tagliava una grossa cicoria, si aprì ai piedi della giovine un fossato profondo, che la inghiottì. Giunta in fondo, si trovò in un magico palazzo, dov'era una fata che le disse:
– Da questo momento tu sarai la mia domestica. Ti consegno sette chiavi che aprono sette porte di sette bellissime stanze; banda, però, di non aprirne l'ultima, ché ne morresti.
E, in così dire, le diede una grossa rosa sanguigna. Scomparsa la fata, la giovinetta, spinta dalla curiosità, volle aprire proprio la settima camera, avendo in petto la purpurea rosa. Grande fu la sua meraviglia e il suo spavento, scorgendo in mezzo alla vasta sala un grosso pozzo con degli scheletri umani intorno. Non contenta della trasgredita proibizione, né paga della curiosità, volle aprire il pozzo e guardarvi dentro. Non l'avesse mai fatto!
La rosa diede sangue, sì che, tornata la malefica fata e, accortasi di tutto, tagliò la testa alla giovinetta. La madre, intanto, non vedendo tornar la figliuola, mandò la seconda a cercarla, ma la poverina ebbe l'istessa sorte della prima. Inquieta la madre, incaricò la piccina di cercare le sorelle. Il destino portò anche lei nel fosso a tanti fatale, sì che vi cadde e la solita fata le consegnò le solite sette chiavi, facendole la solita raccomandazione, e dandole la rosa purpurea. La piccina volle curiosare la settima stanza, ma, prima di aprirla, fosse caso o furberia, si tolse la rosa dal petto. Fu la fortuna sua e delle infelici vittime della malefica fata!
Perché, nel fondo del pozzo vide un unguento miracoloso: lo prese, ne unse i teschî e gli scheletri sparsi sul pavimento della stanza e, d'un tratto, centinaia e centinaia di morti tornarono in vita, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti a coro inneggiando alla vita, benedicendo alla gentile salvatrice. La fata, intanto, era tornata e, visto l'accaduto, chiamò l'Eroina e le disse:
– Tu, fra tante, sei stata l'unica a scovrire il mistero. Questo palazzo è tuo.
La ragazza ringraziò e, con la madre e le sorelle, ivi venne ad abitare. Più tardi, prese marito e visse a lungo felice.
L'Anonimo finì:
– Io ebbi un bellissimo abito.
Oreste Conti
Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Pierro, Napoli 1911.