Quante volte noi nipoti, ben lontani da certe realtà, siamo rimasti affascinati ad ascoltare le tue storie, i tuoi racconti, le tue vicissitudini... la tua vita. Con ancora tanta commozione e lucidità sai perfettamente descrivere, nel tuo dialetto così prezioso, quei tragici momenti della tua giovinezza. Ho cercato così di trasmettere, attraverso le tue parole, a chi leggerà, le stesse emozioni che tu, cara nonna Rosa, hai suscitato in noi.
– In quel novembre del 1943 cominciò per Capracotta un terribile calvario e tutto rimarrà indelebile nella mia memoria. Il paese era in balia delle truppe tedesche che dopo l'Armistizio, incalzati dagli Alleati ormai giunti tra Carovilli e Staffoli, si preparavano a lasciare terra bruciata tutt'intorno. Proprio in quei giorni (precisamente il 4 novembre) una tremenda ferita sconvolse ancora di più i nostri animi già turbati. Direttamente dal balcone di casa mia avevo assistito attonita al passaggio di quella camionetta che così velocemente conduceva i fratelli Fiadino per l'ultima volta sott'a re Mónte. Disperazione, lacrime, lutti, paura, angoscia, terrore, smarrimento. Sento ancora la voce del banditore Gildonio che, su ordine del comando militare tedesco, annunciava per le strade: «Si avvertono i cittadini che il paese sarà distrutto. Gli uomini si devono radunare nella piazza municipale e le donne e i bambini dovranno recarsi nelle chiese e al cimitero».
Bisognava sgomberare immediatamente le case perché in breve tempo sarebbero state distrutte. Iniziò così una lunga e dolorosa sfilata di donne, bambini e anziani; mentre tutti gli uomini validi, tra i quali anche mio padre, si tenevano nascosti per evitare di essere rastrellati e costretti a scavare bunker lungo la linea Gustav oltre il fiume Sangro. Si sarebbe voluto salvare qualcosa, almeno l'indispensabile, ma non c'era stato il tempo. Fuori già si sentivano quelle fortissime esplosioni delle prime case fatte saltare in aria. Solo chi ha vissuto quei terribili momenti può capire cosa abbiamo provato: freddo, aria irrespirabile, chi dormiva nei loculi, i vivi con i morti, si attaccavano le carni delle pecore alle Croci, voci, lamenti, preghiere...
Quella mattina nevicava, un cielo grigio ed un freddo gelido ci avvolgevano. Mia madre, preoccupata di aver lasciato tutto all'improvviso, mi chiese di accompagnarla a 'rcercà la casa per provare a recuperare i nostri pochi oggetti di valore e qualche provvista nascosta. Io, sedicenne impaurita, non esitai e ci incamminammo rapidamente verso casa. Le strade erano deserte, si intravedeva ogni tanto qualche altra donna temeraria che in tutta fretta tornava verso il cimitero con quello che era riuscita a trovare. Da lontano solo boati e l'odore di quel fumo, presagio di una distruzione imminente. Davanti casa io e mia madre ringraziammo la Madonna de Lurìte nel vederla ancora in piedi. Entrammo e un irreale silenzio regnava laddove fino a qualche giorno prima un viavai di persone veniva al negozio di mio padre ad acquistare vino e altri generi alimentari. Restammo titubanti per qualche secondo e, nonostante l'ansia di poter essere scoperte e di non sapere che cosa poteva capitarci, con il cuore in gola salimmo le scale dirigendoci verso la camera da letto. Insieme, con tutte le nostre forze, spostammo l'armadio dietro il quale era nascosto dell'oro, tra cui dei gioielli etiopi che erano stati regalati dal compare Agostino Conti.
Non potevo andar via senza quel "fazzoletto" di seta che mi aveva regalato il mio fidanzato e che poi sarebbe diventato mio marito... Avevamo appena preparato un maccatùre de róbba quando udimmo dei passi dalle scale. Apparvero sulla porta tre tedeschi con asce e fucili. Rimanemmo senza fiato. Uno di loro parlava italiano, probabilmente altoatesino, ci chiese che cosa stavamo facendo lì e ci intimò di allontanarci subito senza portare null'altro. Nella mia ingenuità, in quel momento pensavo solo al mio fazzoletto, che continuavo a cercare con lo sguardo tutt'intorno. Lo vidi per terra, sotto il tavolo e dissi a bassa voce:
– Mó me z'ena tòlle pure re fazzulètte de seta!
Un soldato improvvisamente lo raccolse e me lo diede dicendomi:
– No signorina. Ecco il foulard.
Io lo presi e rimasi immobile in quell'atmosfera di terrore incredula per quell'atto di umanità inaspettato. Mia madre lasciò il maccatùre e mi prese la mano per scappare via. Quel soldato, facendosi da parte, ci salutò con un sorriso. L'immagine di quel giovane in divisa, che con un semplice gesto mi aveva restituito un dono d'amore, mi ha sempre accompagnato in quel triste periodo della mia adolescenza regalandomi la speranza che prima o poi tutto sarebbe finito.
Finalmente, dopo nove giorni e nove notti, potemmo lasciare il cimitero. Capracotta era libera, ma in buona parte distrutta!
Terrorizzati dal pensiero di ritrovare solo un cumulo di macerie ci mettemmo in cammino verso casa. Arrivati in via Nicola Mosca tirammo un sospiro di sollievo: la nostra casa era lì! Ma solo dopo aver aperto il portone dovemmo tristemente constatare che all'interno tutto era stato bruciato. L'unica cosa risparmiata dal fuoco fu un'immagine di sant'Antonio che i miei genitori tenevano sul camino in quella che una volta era la cucina. Il dolore fu immenso. Avevamo perso tutto, ma eravamo pronti a ricominciare.
Anna Maria Caraccio
Fonte: A. M. Caraccio, Il fazzoletto di seta, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.