«Ubi ficta fuit ex antiquitus culumna marmorea que finis fuit de jam dicto comitato isernino». Così il Ciarlanti descrive uno dei confini del contado d'Isernia, quello della Serra di Montecapraro, e la citata colonna marmorea era probabilmente piantata nel territorio chiamato Torretta, sulla vetta che ha sempre segnato il confine tra il feudo di Vallesorda, appartenente fin dal 1011 ai Cassinesi e quello di Vicennepiane. La prima notizia sul feudo di Vicennepiane è del 1171, quando apparteneva ai baroni di Montemiglio. In esso esisteva una chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria, ma intitolata anche ai santi Simone e Giuda ed a santa Lucia Vergine. Fu consacrata dal vescovo di Trivento, Raone, che l'arricchì di reliquie ed indulgenze. Ne fu preposto, all'epoca, un tale Raele detto «l'eremita di S. Giovanni di Montecapraro».
Nel XVI secolo il feudo apparteneva alla nobile famiglia d'Eboli, nella persona del barone Giovan Vincenzo. Alla fine del 1500 risulta di proprietà della nobile famiglia de Maio di Capracotta, alla quale rimase fino al 23 dicembre 1622, epoca in cui Ettore de Maio vendette definitivamente il feudo di Vicennepiane al barone di Castel del Giudice, Donato Giovanni Marchesani. Passato ai suoi successori, il feudo giunse ad Anna Maria Baldassarra Marchesani, figlia di Margherita d'Alessandro e moglie di Giuseppe d'Alessandro, duca di Pescolanciano. Alla sua morte, avvenuta l'8 aprile 1729 in Castel del Giudice, divenne titolare per Vicennepiane il figlio Ettore. Fu proprio lui che in qualità di erede ab intestato della madre ed in virtù delle leggi allora vigenti in base alle quali era tenuto nei confronti delle sorelle, Francesca (che sposò Andrea d'Alessandro, duca della Castellina) ed Isabella (vergine in capillis reclusa nel ritiro di Mondragone) al solo obbligo della dote, a vendere il feudo di Vicennepiane. L'atto fu stipulato in Pescolanciano il 20 febbraio del 1732 dal notaio Felice Mezzanotte di Frosolone, a favore di D. Giuseppe Antonio d'Alena che dichiarò di contrattare per persona da nominare. Lo stesso D. Giuseppe fu nominato dal duca come suo procuratore al fine di richiedere il regio assenso su quella vendita, ed a sua volta per mezzo di suo fratello, il sacerdote D. Francesco prese reale e corporale possesso del feudo con tutti i suoi corpi e beni. Con ulteriore atto notarile, questa volta rogato dal notaio Tomasuolo il 28 giugno del 1732, D. Giuseppe Antonio dichiarò che la compra era stata fatta da lui per conto ed in nome del fratello Domenicantonio e suoi eredi e successori. Su questi atti chiese ed ottenne il regio assenso per verbum fiat in forma, il 30 giugno dello stesso anno. Con un ulteriore atto rogato dallo stesso notaio Tomasuolo il 10 luglio 1732, il duca e D. Giuseppe ratificarono gli atti già stipulati ed anche su quest'ultimo fu chiesto e concesso qualche giorno dopo il regio assenso.
Tuttavia il duca d'Alessandro, forse pentito di aver alienato il feudo, pensò di revocare il contratto, e ciò fece con atto del notaio Leonardo Marinelli di Napoli, in data 23 luglio 1732. Il 28 dello stesso mese si rivolse al Sacro Regio Consiglio, chiedendo l'annullamento della vendita che qualificava come semplice promessa; il Presidente Orazio Rocca ordinò la controsupplica e che nulla s'innovasse fino alla notificazione. Ettore d'Alessandro aveva nel frattempo saputo che prima della sua richiesta di revoca, era già stato chiesto ed ottenuto il regio assenso, ma deciso a spuntarla fece chiedere l'annullamento anche dalle sorelle e dalla moglie Marianna di Toledo. Francesca d'Alessandro assunse come motivo di giustificazione delle sue richieste al Sacro Regio Consiglio, che i 20.000 ducati che le erano stati promessi nei capitoli matrimoniali non le erano stati ancora pagati dal fratello, il quale non poteva pertanto diminuire le garanzie del credito alienando un feudo; la sorella Isabella affermò, invece, di non aver ancora ricevuto alcuna dote e pertanto chiedeva che la vendita venisse annullata. Infine Marianna di Toledo sostenne, nell'interese dei figli, la tesi secondo la quale tutti i beni feudali del marito costituivano un fedecommesso di cui le leggi vietavano l'alienazione, a maggior ragion considerando che tali beni garantivano la sua dote. Tutte queste richieste erano però destinate a cadere nel vuoto poiché il regio assenso era già stato concesso sulla vendita a favore di Domenicantonio d'Alena: il duca d'Alessandro, quindi, consigliatosi con i suoi legali, con i quali tenne parecchie sedute, dovette risolversi ad accettare la vendita che del feudo aveva fatta, e con un ultimo atto stipulato dal notaio Tomasuolo, datato 4 maggio 1733, rinunciò per le sorelle e per sé alle suddette istanze, e vendette nuovamente a Domenicantonio d'Alena e suoi eredi e successori il feudo di Vicennepiane per il prezzo di 10.000 ducati di cui mille ne ebbe il giorno stesso del contratto, 2.000 dichiarò che gli erano stati già pagati precedentemente, e delegò il pagamento degli altri settemila a favore del dott. Stefano di Stefano suo creditore. Il duca inoltre promise la ratifica della vendita per parte delle sorelle e consentì che il compratore, anche come suo procuratore speciale, chiedesse un nuovo assenso al Vicerè ed al Regio Consiglio Collaterale, con real privilegio, «etiam in forma Regiae Cancelleriæ», e la registrazione nei regi quinternioni «quatenus tamen opus sit et requiratur». Il regio assenso fu ottenuto il 18 maggio dello stesso anno e fu registrato nel regio quinternione l'11 gennaio del 1734, al n. 252, foglio 184. Nel medesimo atto 4/5/1733, Isabella ratificò la vendita, mentre non si rese necessario fare lo stesso con Francesca poiché la stessa era stata sufficientemente dotata dal fratello oltre il quale non aveva altri eredi legittimi.
Le condizioni della vendita inserite nell'atto del notaio Tomasuolo (quello del 4 maggio del 1733) furono le seguenti:
Per franco e libero il feudo sudetto da qualsivoglia vendita, alienazione, donazione, sostituzione, refuta, maiorato, fideicommisso purificato seu purificando, obbligo, peso, ipoteca e servitù, eccetto però dal feudal servizio, seu adoa, dovuta in ogni anno alla Regia Corte, e per essa al Sig. Duca di Capracotta cessionario di detta Regia Corte in somma d'anni ducati cinque e tarì tre, e da ogni altro peso che forse si dovesse per natura di feudo e suprema ragione di dominio. Il quale feudo fu venduto dal Dca di Pescolanciano con tutte e singole sue ragioni e con la facoltà ancora di reintegrare tutti e qualsivogliano corpi, ragioni, azioni e giurisdizioni a detto feudo seu ad esso Sig. Duca e suoi predecessori spettanti, e per altri forse indebitamente detenuti, occupati e posseduti, e con tutte altre ragioni, prerogative, privilegi, autorità e giurisdizioni a detto feudo di Vicenne piane quomodocumque et qualitercumque spettantino in vigore di qualsivogliano cautele e privilegi, il tenor dei quali s'abbia come se de verbo ad verbum fosse nel presente contratto annotato ed inserito, non riservandosi esso Sig. Duca cosa alcuna, volendo che ogni cosa del detto feudo e lo stesso feudo s'intenda venduto e trsferito al detto Sig. Domenico-Antonio compratore, suoi eredi e successori, siccome li trasferisce in omnibus, serbata la forma di sue cautele e privilegi e con tutte le sue ragioni, ed in altro qualsivoglia modo, ragione, consuetudine, prescrizione ed altra qualsivoglia causa, ancorché fossero tali dei quali bisognasse qui farsene espressa e speciale menzione, e nel generale, seu altro qualsivoglia parlare non venissero, né s'includessero. E si dichiara e conviene che la sudetta giurisdizione sel'intende ceduta e trasferita tale quale però al Duca si appartiene e spetta per dritto di concessione reale o per legittima consuetudine, e non altrimenti, senza riservarsi esso Sig. Duca cosa alcuna.
Nel 1750, tuttavia, il figlio del duca d'Alessandro, Nicola, volle rinnovare la lite iniziata dai genitori e dalle zie, alla quale gli stessi avevano espressamente rinunziato con l'atto del 1733. Presentò quindi domanda al Sacro Regio Consiglio e fu incaricato il Consigliere Porcinari, il quale spedì la cotrosupplicata allo scrivano Ricci. Il d'Alessandro sosteneva che il padre, in quanto fidecommissario di Anna Maria Marchesani, non poteva alienare Vicennepiane, anche perché il Sacro Regio Cosiglio glielo aveva proibito in pendenza della causa. Inoltre sosteneva che nella vendita vi era stata lesione di prezzo ultra dimidium, e ne chiedeva la restituzione in integrum. Domenicantonio preparò la sua difesa fondandola sui seguenti punti:
la duchessa di Pescolanciano aveva presentato opposizione alla vendita nell'agosto del 1732, quando la vendita stessa era già perfetta poiché munita di Regio assenso;
la stessa aveva espressamente rinunciato all'opposizione con apposita convenzione stipulata dal notaio Tomasuolo, con la quale il suo diritto era stato pienamente assicurato dal duca;
il duca Ettore d'Alessandro, con l'ultima vendita, aveva rinunciato al giudizio iniziato nel Sacro Regio Consiglio presso la banca Rocca, e perciò qualunque decreto pronunciato nel corso di esso non aveva più efficacia, anche perché lo stesso non era mai stato notificato;
Isabella d'Alessandro aveva approvato e ratificato la vendita;
Francesca d'Alessandro, pur non avendo confermato e ratificato il contratto, non aveva comunque più alcun diritto di opporsi poiché i ventimila ducati di dote promessile dal duca le erano stati da questo pagati con assegno di fiscali su terre abruzzesi e di un palazzo in Napoli, alla strada Santa Lucia, dove abitava il principe d'Ardore;
inoltre, quand'anche la detta Francesca avesse conservato il diritto di opposizione, il duca Nicola, in quanto erede del padre che si era obbligato a far ratificare la vendita, doveva tenere sempre indenne il compratore;
l'asserito fedecommesso non esisteva affatto, e quand'anche fosse esistito, il prezzo convenuto per la compra con il duca era servito a pagare i debiti della madre a cui prima appartenevano Vicennepiane e gli altri beni lasciatigli;
non vi era alcuna lesione del prezzo ultra dimidium, poiché la rendita annuale del feudo era di 222,40 ducati all'anno che calcolati alla ragione del 3,50% formavano un capitale di 6.354,28 ducati, mentre la vendita era stata concordata per 10.000 ducati;
infine, essendo nato il uca il 19 settembre del 1726, era ormai decaduto dal diritto d'impugnare l'opera del padre, tanto più che mancando la lesione, necessaria ai fini dell'azione di prelazione e della restituzione in integrum, l'azione stessa era inammissibile.
Di fronte alle questioni ed eccezioni opposte da Domenico Antonio, il duca ritenne opportuno abbandonare la causa intrapresa e la stessa cosa fecero la moglie e le sorelle.
Ancora un'ultima battaglia legale doveva essere combattuta per difendere il feudo di Vicennepiane. Il 21 agosto del 1756 il Regio Fisco promosse una lite ed invitò il barone d'Alena a presentare i titoli d'acquisto di Vicennepiane, a dimostrare come il feudo fosse passato da Aurelia d'Eboli ad Ettore de Maio senza pagamento di relevio, a documentare come Vincenzo delli Monti, marchese d'Acaia, si era trovato in possesso dell'esazione dell'adoa dovuta per il medesimo feudo.
Domenicantonio uscì vittorioso anche da quest'ultima lite. Innanzitutto chiamò in garanzia per qualunque evento e secondo il proprio diritto il duca di Pescolanciano poiché da lui il feudo gli era pervenuto, quindi eccepì la prescrizione centenaria contro gli ultimi due capi e presentò contro il primo il titolo legale di acquisto dell'adoa che aveva rilevato da Giuseppe Capece Piscicelli, erede di Andrea duca di Capracotta, che l'aveva a sua volta comperata dalla Regia Curia con regolare contratto ratificato dal Re Carlo II in Madrid. Domenicantonio, oltre ad opporre queste eccezioni, avrebbe potuto dichiarare di volersi avvantaggiare di quegli stessi reali indulti dei quali si era giovato quando si accordò il regio assenso alla compra del feudo, ma per evitare ulteriori spese e fastidi, offrì, in via di transazione, il pagamento di 15 ducati. L'offerta fu accettata con decreto della Regia Camera della Sommaria del 23 giugno 1756 e si ordinò che il barone non fosse più molestato in merito. I quindici ducati furono pagati con fede di banco del 6 luglio succesivo intestata a Michele Doti. Il giorno 8 dello stesso mese vennero spedite lettere con questo provvedimento che furono registrate nella Tassa dell'adoa 33, n. 292 e 293. Ne fu rilasciato certificato a Domencio Antonio d'Alena il 27 agosto successivo.
Successore di Domenico Antonio per Vicennepiane fu il figlio Donato, morto nel 1822, e quindi ultimo intestatario nei Regi Cedolari per questo feudo; Donato Antonio ottenne l'iscrizione nei Regi Cedolari il 24 novembre del 1764. Da questi atti risulta, inoltre, che il pagamento dell'adoa e del jus tapeti si era provveduto a pagarlo anticipatamente.
Il feudo di Vicenne Piane venne diviso per la prima volta nel 1875 (atto del 28 novembre 1875 per Notar Lorenzo di Ciò) tra i fratelli D. Antonio, Federico, Eugenio e Pietro d'Alena, ed ancora oggi è in proprietà dei loro discendenti.
Alfonso Di Sanza d'Alena
Fonte: https://www.casadalena.it/, 25 febbraio 2014.