"Urania" è una collana editoriale di Arnoldo Mondadori dedicata al genere fantascientifico - la più nota e longeva in Italia - nata nell'ormai lontano 1952. La serie ha pubblicato migliaia di romanzi e promosso centinaia di scrittori, alcuni dei quali si sono affermati a livello internazionale. Per dare un'idea di quanto "Urania" si avvicini all'epica dirò che persino la sua veste grafica è un cult, per via di quel semplice cerchio rosso in copertina, sempre uguale a se stesso. Ma quello che vedete in alto è solo un fotoritocco, ché troppo bello sarebbe pubblicare un libro per una collana tanto gloriosa, anche se, a ben vedere, la fantascienza non è il mio genere.
Ciò di cui voglio parlare oggi sta però tutto qui o, per meglio dire, sta nell'uscita editoriale numero 1036 di "Urania" del 23 novembre 1986, "Il libro del fiume", firmata dallo scrittore britannico Ian Watson, classe '43, e tradotta in italiano da Laura Serra. Professore di futurologia al Politecnico di Birmingham, Watson è uno scrittore che, dal 1973 ad oggi, ha partorito una trentina di libri, e il suo nome viene sovente avvicinato a quelli di Stanley Kubrick e Steven Spielberg per aver approntato la screen story del film capolavoro "A.I. – Intelligenza artificiale" (2001), rilettura in chiave cyborg di Pinocchio.
"The Book of the River" fa parte di una trilogia - assieme a "The Book of the Stars" e "The Book of Being" - in cui il fiume, che solo le donne possono navigare, è l'unica via di collegamento fra le città: agli uomini è concesso un viaggio unico, pena la follia o la morte. La Corrente Nera, un flusso vivo e melmoso, impedisce ogni contatto con la riva occidentale, popolata da misteriosi esseri appena visibili dalla sponda destra. Essere ammessi nella "corporazione del fiume" significa addentrarsi nel cuore della Corrente Nera e, chissà, arrivare a una folgorante rivelazione sulla natura del pianeta. Il romanzo si basa infatti su un affascinante mistero che soltanto al termine del terzo libro verrà completamente svelato.
Quel che mi preme evidenziare è che una delle città adagiate sul citato fiume si chiami Verrino, come il torrente altomolisano che nasce dalle tre sorgenti di Capracotta: la Fonte dei Cementi, la Spogna e la Fonte delle Moree. La mia curiosità è capire se il nome scelto da Watson sia frutto del suo flusso di coscienza o una scelta geografica mirata. Prendiamo ad esempio questo dialogo tra la barcaiola che accompagna i coraggiosi viaggiatori e il protagonista:
– A Verrino, eh? È una lunga camminata, per un ragazzo. – Nella voce della donna colsi un certo astio, come se Verrino fosse una sorta di roccaforte di ribelli che criticavano la retta via, la via del fiume. Se Capsi fosse voluto andare a Verrino, avrebbe dovuto percorrere a piedi cinquanta leghe, a meno che, per un caso fortuito, una ragazza di Verrino a caccia di un marito non avesse deciso di fare una capatina a Pecawar, non si fosse innamorata follemente del giovane Capsi e non se lo fosse portato a casa per sposarselo.
Più avanti Ian Watson scrive che «la città di Verrino era popolatissima, ma nonostante questo sembrava stranamente disabitata, come se la gente non potesse più credere veramente in essa, pur facendo finta di crederci». Per risolvere l'arcano sulla città di Verrino ho chiesto direttamente al prof. Ian Watson di chiarire gentilmente la faccenda. In meno di 24 ore, con una gentilezza fuori dal comune, ecco la traduzione di quel che mi ha risposto:
Ciao Francesco! È un piacere sentirti. La verità è che ho buttato giù i nomi delle città sul lato del fiume di Yaleen in non più di un minuto. I nomi mi sono semplicemente venuti in mente. Sapevo che dovevano sembrare culturalmente diversi - Pecawar mi sembra pakistano e Verrino mi sembra italiano, mentre Ajelobo potrebbe essere africano e Umdala tibetano - ma questa è stata l'unica regola di fondo; poi mi sono rilassato e ho scritto tutti i nomi uno dopo l'altro in verticale, spontaneamente. Questo è certamente il mito che mi racconto. È ciò che ricordo e potrebbe anche esser vero. A Capracotta mangiate capre cotte? Oh, sul vostro stemma vedo che c'è una capra al fuoco! Prima dei computer e prima di Google ho dovuto inventare tutto nella mia testa. Così come ho inventato il nome delle città. Ciao! Ian W.
A quanto pare, dopo che l'autore ha fissato un blando schema fonetico, i nomi delle città gli sono scaturiti automaticamente, o perlomeno «this is certainly the mythology which I tell to myself. This is what I remember, and it may even be true». Watson, dunque, non esclude che quel nome così Italian sounding, Verrino, non possa provenire da reminiscenze lontane, evocazioni sopite, da precedenti subconsci...
Francesco Mendozzi
Bibliografia di riferimento:
F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016;
C. Minieri Riccio, Biblioteca storico-topografica degli Abruzzi, Priggiobba, Napoli 1862;
I. Watson, Il libro del fiume, trad. it. di L. Serra, Mondadori, Milano 1986.