Il 3 giugno 1894, in occasione della riapertura dell'asilo infantile dopo il notevole intervento di ristrutturazione voluto dall'indimenticato Nicola Falconi (1834-1916), fu messo in opera anche un fontanino nel cortile di Palazzo Baccari, lo splendido edificio cinquecentesco che, oltre all'asilo, ospiterà poi il teatro, la scuola elementare, la caserma dei Carabinieri ed infine la residenza per anziani.
Era quello il limite invalicabile che noi scolaretti di San Giovanni dovevamo rispettare in quanto, per ataviche forme di campanilismo, ci era precluso l'ingresso nel Rione Sant'Antonio. E proprio grazie a ciò ho potuto ammirare nei tempi andati la fontana col citrìglie (bambino), come diceva mia nonna Giovannina.
Degli anni all'asilo ho pochi ricordi perché, assieme a mio fratello Mario, l'ho frequentato pochissimo. Stavamo perlopiù a casa con mamma, la quale, da perfetta smartworker e grazie a una pesante macchina in ghisa, confezionava in lana le nostre maglie della salute che, dopo averle indossate, causavano un prurito difficile da lenire.
Alle scuole elementari, invece, quelli più grandi provavano compassione di noi quando sentivano chi era il nostro maestro, in tempi in cui le reazioni dei genitori, in caso di scarso rendimento o cattiva condotta, erano alquanto sconsiderate. La scuola di certo non era una prigione ma il numero degli alunni per classe oscillava dalle 35 alle 40 unità e tutti quei ragazzini assomigliavano davvero a piccoli animaletti selvatici tenuti in cattività.
Quando la nostra attenzione calava bruscamente dopo pochi minuti - il corpo voleva librarsi nell'aria come Tarzan - ogni deterrente era buono per ristabilire l'ordine e la concentrazione. A quei tempi era infatti considerato lecito l'utilizzo della bacchetta, ossia la famosa e inquietante Santa Justa.
In barba a qualsiasi regola pedagogica, quotidianamente questa veniva calata sulle mani del malcapitato con dolorose "spalmate", anche se nei casi meno gravi il maestro si limitava a spedirci dietro la lavagna o a spedirci per le classi, in sua compagnia, con un cappello di carta con su scritto "Io sono un asino". In quella particolare circostanza il capoclasse si impegnava a trascrivere sulla lavagna i nomi dei buoni e dei cattivi, cosicché, non appena il maestro rientrava in classe, poteva impartire le punizioni del caso.
Furono tempi duri, soprattutto furono diversi rispetto a quelli attuali. Si andava a scuola con grembiule, fiocchetto, scudetto (che indicava la classe) e cestino per la merenda; adesso invece è tollerato persino il tatuaggio a vista in qualsiasi parte del corpo. L'unico tatuaggio che abbiamo conosciuto noi è stato quello impresso sul braccio sinistro con un bisturi sterilizzato su fiamma, con nostro sommo terrore, al tempo della vaccinazione contro il vaiolo. Quello contro la polio, d'altronde, fu somministrato con più dolcezza, tramite uno zuccherino.
Nei primi anni di scuola abbiamo consumato litri di inchiostro, decine di pennini e quaderni, chili di cenere e carta assorbente, solo per disegnare aste e puntini, scrivere le lettere dell'alfabeto e poter così superare l'esame di seconda e poi quello di quinta elementare, utile al prosieguo in scuola media.
Data la scarsa alfabetizzazione dei nostri genitori (salvo casi eccezionali) non venivamo supportati nello svolgimento dei compiti scolastici, se non attraverso l'aiuto di un nonno o di qualche altro conoscente, fermo restando che i risultati restavano scarsi. Sì, siamo la generazione delle aste e dei puntini ma siamo anche quelli che hanno visto i primi PC e i primi tablet, oggi utillizati in modo ossessivo. Questa tecnologia compulsiva sembra velocizzare il tempo e, senza rendercene conto, ci catapulta in un baleno dall'asilo d'infanzia alla residenza per anziani!
Filippo Di Tella