Non dimenticherà mai quei giorni.
Il primo, 15 marzo 1970, uno splendido sole, sbucato di sorpresa, spandeva i suoi tepori su cime ancora innevate. Michele, col finestrino aperto per respirare quell'anticipo di primavera, guidava la sua Giulia 1300 verso Scanno, dove aveva appuntamento con un negoziante interessato alla sua merce: articoli di abbigliamento e biancheria intima femminile.
Per gran parte del viaggio s'era messo a riflettere sulle ragioni che lo spingevano a fare il venditore. L'impegno e la passione che metteva in quel lavoro avrebbero potuto essere indirizzate sul sogno imprenditoriale che suo padre cercava faticosamente di realizzare, e invece... eccolo lì, scorrazzante in lungo e largo dentro un auto stipata di guaine e reggiseni. Ma perché?
Michele sapeva di essere una di quelle persone che parlano dritto negli occhi della gente, con la buona fede di chi non ha nulla da nascondere. Rimuginando, si chiese se non era giunto il momento di farlo anche davanti allo specchio: scavare dentro se stesso e buttar fuori i motivi che lo tenevano lontano dal lavoro di suo padre.
Superò Palena e pilotando per strade strette e tortuose, si ritrovò alle pendici del Passo Godi, una via naturale di transito tra l'alta Valle del Sagittario e l'alto Sangro.
Deciso a godersi quel sole marzolino, e a rimandare ogni dubbio e riflessione al suo ritorno a casa, Michele si concentrò sul panorama, e solo allora scoprì che qualcosa di misterioso s'era impadronito di quei posti: un silenzio d'attesa, e un cielo così nero da obbligarlo ad accendere i fari.
Pazzia del più volubile dei mesi: il tempo era mutato, ma in modo così repentino come mai gli era accaduto di vedere. All'improvviso, cominciò a scendere una neve farinosa ma incredibilmente fitta, piccoli fiocchi che in brevissimo tempo ridussero la visibilità del manto stradale, costringendolo a procedere con il viso incollato al cristallo.
Andò avanti così per un paio di chilometri, finché non vide più nulla. Accecato da un bianco assoluto, sentì un sobbalzo, e poi subito un botto, come se qualcosa avesse violentemente picchiato contro la fiancata di metallo della portiera. Un grosso strato di neve cadde da un ramo, centrando il cofano.
Sprovvista di catene, l'auto era uscita dai solchi, deviando su un tronco e finendo per giacere con le ruote anteriori sospese su un'ampia cunetta. Michele spinse sull'acceleratore, e il rombo del motore diventò assordante, un misto tra un ruggito e un lamento.
Una folata di vento freddo gli soffiò contro il corpo, ricordandogli che tra poco quella macchina sarebbe diventata un frigorifero. Vista l'impossibilità di ripartire, Michele decise di risparmiare la benzina per poter tenere il riscaldamento acceso.
Pensò: verrà qualcuno.
No.
L'altopiano di Passo Godi, che oggi è una stazione di turismo montano, era stato teatro di morti e sparizioni, e anche di un'antica tragedia di guerra: durante una bufera di neve, una divisione tedesca si era smarrita tra quei monti, e i soldati erano morti assiderati. A distanza di quasi trent'anni, quella strada faceva ancora paura, e così, appena il tempo si rabbuiava, veniva chiusa al traffico. Chi aveva la sventura di rimanervi bloccato, era destinato a rassegnarsi e aspettare l'aiuto di un mezzo di soccorso.
Arrivarono le tenebre, e il secondo di quegli indimenticabili giorni. La nevicata proseguì ininterrotta, accompagnata da un vento che produceva una musica angosciante. Sibili assordanti, non note. Michele, più spazientito che allarmato, ebbe la forza di rannicchiarsi tra i sedili e dormire, ma intanto la macchina fu quasi interamente ricoperta dalla neve. Uscirne era una sfida. Alle prime luci del mattino, raccolse le sue forze e spinse con i piedi sul cristallo, provando a ribaltarlo. Con immensa fatica, riuscì a tirarsi fuori dall'abitacolo, ma fu come se miliardi di spilli gli venissero buttati in faccia. La neve continuava a scendere, fittissima e incessante, e il suo abitino primaverile non gli offriva alcun conforto. Rientrò in macchina tutto intirizzito e ringraziò il cielo d'essere riuscito a riassestare il cristallo.
Nelle ore seguenti, fino al giorno dopo, il terzo, si preoccupò soprattutto di fare entrare aria, abbassando il finestrino, raschiando un po' di neve, o aiutandosi con il calore generato dal fumo di una sigaretta.
Rievocando l'insolita avventura, Michele si sofferma su quello che anche allora
gli era parso l'aspetto più curioso e sconvolgente:
«Guardavo ripetutamente l'orologio, illudendomi ogni volta che fossero passate ore, quando invece si trattava di minuti. Di sicuro, c'erano altri elementi che potevano angustiarmi: la macchina che rischiava di diventare la mia tomba, la fame, la sete, un freddo che cresceva e contro cui difficilmente avrei trovato rimedio. Una situazione da far drizzare i capelli, e invece la mia unica preoccupazione era il tempo che passava. Dentro di me ero convinto che, prima o poi, quella brutta avventura sarebbe finita. Sì, ma quando?».
A Lanciano intanto, tra i suoi familiari, montava un'ansia sempre più pensosa.
«Conoscendo la mia passione per la velocità, temevano che fossi finito in un burrone. Mia moglie Rosanna si rivolse a nostro cognato, ch'era maresciallo dei carabinieri a Chieti. Insieme, si misero a sfogliare i blocchi delle commissioni e a telefonare ai clienti, finché trovarono un negoziante che affermò d'avermi visto il giorno prima... a Capracotta, a diversi chilometri da dove, in quelle stesse ore, stavo prigioniero sotto metri di neve. Partirono due camionette che scandagliarono la zona, inerpicandosi per passi inaccessibili, sfidando altre burrasche, inutilmente».
Ignaro di tutto questo, Michele continuava a vivere il suo personale calvario, non potendo né bere né mangiare. Per i bisogni fisiologici usava un asciugamano, o dei cartoni dai quali aveva estratto biancheria, ma ormai la sua vescica era serrata: urinava un rosso sangue che lo sgomentava, facendogli intuire che il corpo si stava disidratando. Tuttavia, spinto da una straordinaria ragionevolezza, si sforzava di rimanere calmo: se fosse uscito, affrontando la tormenta e provando a raggiungere un posto abitato, sarebbe certamente morto assiderato.
C'è un proverbio che Michele conosce bene, e il cui senso ha scandito varie tappe della sua vita: in situazioni estreme, come quella che stiamo raccontando, o nelle corse in moto, un'altra sua passione, o ancora, nelle decisioni che sono richieste a chi dirige un'azienda; un proverbio che è quasi il suo motto, e che recita così: l'uomo codardo muore mille volte, quello coraggioso una volta sola. Michele aveva la gola arsa, la lingua spellata, scosse di mollezza che partivano dai piedi e l'avvolgevano tutto. Ma continuò a tener duro, aspettandosi che qualcosa cambiasse, e così fu.
All'alba del quarto giorno ebbe come l'impressione che il tetto dell'auto vibrasse di un calpestio leggero, che poteva essere solo quello di un animale. Ne dedusse ch'era tornato il sereno. La sua tana metallica non era più un involucro di tenebre.
C'era qualcosa di rassicurante, finalmente, come un chiarore che cercava di farsi breccia dall'esterno. Michele raccolse le sue forze, e col tacco di una scarpa, cominciò a picchiare sul finestrino, fino a mandarlo in frantumi. Poi, scavando con le dita, si aprì un varco e strisciò fuori.
Il sole rimbalzava su un'immensa distesa bianca, obbligando gli occhi a restare semichiusi. A Michele parve di vedere in lontananza una macchia marrone, una struttura in legno, forse un rifugio. Con quel soffio di vita che gli era rimasto, si mise in cammino.
Dopo circa cinque ore, strisciando e superando fortunosamente diverse buche e crepacci occultati dalla neve, si ritrovò davanti a una porta serrata. Quel posto era chiaramente disabitato, ma ormai Michele non si fermava davanti a nulla. Ruppe le imposte e riuscì a entrare.
Dentro c'era un buio assoluto. Scivolando con le mani sulle pareti di legno, cercò un interruttore e, involontariamente azionò una chiavetta della quale ignorava la funzione, ma che tra poco doveva inopinatamente rivelarsi un pericolo.
Continuò a tentoni, inciampando su alcuni oggetti, probabilmente pale e recipienti di metallo, fino a quando si ricordò di avere in tasca un accendino. L'accese, e... improvvisa, una fiammata l'abbagliò.
L'aria appestata di gas aveva causato una piccola esplosione, alimentando fortuitamente un lume che spandeva il suo chiarore nella stanza e facendogli scoprire un ricettacolo di provviste: bottiglie di vino, latte, pasta, barattoli di salsa. In pochi minuti, gli spaghetti al pomodoro che aveva tanto sognato furono lì, cotti e fumanti sotto i suoi occhi, ma dopo averli divorati con lo sguardo, non riuscì a ingoiarne neanche uno. Ancora non sapeva che le disastrate condizioni della sua gola l'avrebbero costretto a 15 giorni di brodini.
Passata l'euforia, le forze tornarono nuovamente a mancargli, obbligandolo a distendersi sul pavimento di legno, e lì passo la notte.
Alle prime luci dell'alba, si destò di scatto, svegliato dal rumore di una turbina.
Un uomo?
Michele sgranò gli occhi impastati di sonno e vide qualcosa alla finestra, come neve spinta in aria. Pochi secondi, e dalla porta apparve un cantoniere, due occhi pieni di stupore e una voce che gli disse:
– Ho visto la tua macchina, laggiù, e ho capito quello che ti era successo. Come hai fatto a uscirne vivo?
A quella domanda, Michele non rispose. Tutt'a un tratto, si rese conto di quanto grande fosse stato il rischio corso. Ancora poche ore e avrebbe perso la vita.
Oggi, rivivendo quei momenti, ricorda d'aver pensato a un miracolo, a un premio per la sua incredibile tenacia e voglia di vivere. Non certo alla fortuna.
«Telefonai a casa. Ero così emozionato che le dita inciampavano sui tasti. Mi ci vollero minuti prima di riuscire a comporre il numero. Minuti interminabili, estenuanti. Minuti di felicità estrema, nell'attesa che mia madre rispondesse: "Dio sia lodato, Michele, sei proprio tu?". Tra un gemito e una lacrima, mi rivelò che in famiglia avevano passato giorni d'inferno, respingendo a fatica l'idea che fossi morto. Ricordo che quando mi vide, scoppiò nuovamente in un pianto convulso, e nonostante cercassi di rassicurarla sul mio stato di salute, non riusciva a smettere e a persuadere se stessa che il peggio era passato, che ce l'avevo fatta. Rosanna mi abbracciò fin quasi a togliermi il respiro. E così mio padre, che forse avrebbe voluto urlarmi di cambiar mestiere, ma tacque. Nicolino invece ebbe paura. Ci mise tempo a convincersi che quell'uomo con la barba lunga e il viso emaciato era davvero il suo papà».
Ci sono episodi nella nostra esistenza di mortali che ci segnano nel profondo. Momenti che crediamo di non farcela e che, a distanza di tempo, restano prove inequivocabili del nostro coraggio. Quando ogni preghiera sembra vana, e ogni speranza perduta, scopriamo che una forza misteriosa è in grado di venirci in soccorso, donandoci la calma necessaria a innalzarci alla condizione di vincenti. Pensiamoci: è la forza della vita. Non c'è niente che non possa fare. Niente è impossibile. Neppure trasformare una sfida con la morte in una storia da raccontare ai nipoti.
Per Michele, il rischio è sempre stato un'attrattiva, una componente ordinaria della sua vita. La morte sfiorata al Passo Godi è solo una di quelle esperienze che hanno contribuito a forgiare un carattere di successo.
Francesco Consiglio
Fonte: F. Consiglio, I Botolini. Ricordi di vita aziendale (e non solo...), Botolini, Rocca San Giovanni 2006.