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Il fotografo che sviluppò le foto con la penna


Capracotta estate
Panorama di Capracotta da Vallesorda (foto: A. Mendozzi).

Le stagioni si inseguivano in maniera incoerente

era la mattina di un giugno piovoso

alla fine di quattro impervi tornanti

e vide apparire come una fotografia sfocata

il piccolo Paese che resisteva alle montagne

quella mattina era avvolto da folte nuvole basse

da lontano poteva scorgere il campanile bianco

maestoso guardiano del burrone misterioso ed infinito

piccole case dalle facciate bianche

erano sormontate da tetti rossi

geometrici e scintillanti all'ombra di quell'insolita nebbia

la macchina procedeva adagio

adorava scrutare particolari che conosceva a memoria

l'incoerente casa gialla all'entrata del Paese

l'antenna dietro casa sua

la grande croce arrugginita sull'estremità del monte

con accanto quel piccolo colle che lui aveva sempre

ritenuto inutile e brutto

arrivò all'innesto

crocevia impervio di quattro strade

una conduceva a valle

le altre due ingannevoli e gemelle

verso la stessa direzione

il Paese

la pioggia aumentò d'intensità

e scelse la ripida salita di sinistra

il cartello indicava meno di un chilometro

all'ingresso del Paese

lo scorse fra la nebbia

il cartello bianco con dieci caratteri stampati in nero

sospirò profondamente

era l'unico molo dove attraccava sempre volentieri

dove nessuna burrasca poteva mai metterlo in pericolo

dove il vento spirava sempre in direzione

del cielo sereno

nonostante le nuvole basse

attraversò il viale diritto come disegnato da un righello

la piccola chiesa rosa a sinistra

il parco artificiale a destra

una nuova statua ma vecchia si stagliava al centro di

piccoli pini appena tagliati

la strada saliva leggermente a destra

poi rallentò

la svolta a sinistra

la salita che si perde a batter di ciglia

poche macchine testimoni del suo passaggio

l'asfalto bagnato

una signora vestita di nero uscì da un portone verde

al suo passaggio

rallentò per salutarla

anche se non la conosceva

quelle case erano la sua famiglia

erano i suoi rifugi

salì con la seconda marcia

amava indovinare i cambiamenti dall'ultima volta

non ne vide molti

la macelleria sulla sinistra

continuò fino a giungere all'ennesima chiesa

guardiana del corso principale

quattro macchine erano parcheggiate sul lato sinistro

lasciò la sua vicino alla chiesa e scese

si avvicinò al bar principale

correva per non bagnarsi

centrò in pieno due pozzanghere che i sampietrini neri

non erano riusciti a smaltire

imprecò

era il suo Paese e sorrise

aprì il portone verde

una musica ripetitiva fuoriusciva dallo stereo

salutò il proprietario perennemente imbronciato

indossava una polo azzurra a maniche corte

nonostante il giugno incoerente

pantaloni stretti con scarpe marroni di marca

i capelli neri tenuti assieme dalla brillantina

si abbracciarono con un fragoroso affetto

bevve il caffè bruciato

specialità tipica del bar

salutò due avventori di mezz'età troppo presi

con l'azzardo virtuale

pagò con quattro piccole monete e se ne andò

riprese la macchina

la salita fu dolce la strada svoltava a destra

il vecchio asilo sulla sinistra

poi la sua enorme casa bianca

il terrazzo era sempre lì

nessuna macchina parcheggiata

rallentò

abbassò il finestrino

le persiane vestite di marrone erano sigillate

l'enorme portone anch'esso marrone era zuppo di pioggia

richiuse il finestrino e senza spingere l'acceleratore

si diresse in discesa verso la piazza

l'orologio bianco batteva i suoi minuti in anticipo

come se volesse anticipare l'ora del riposo serale

il bar sulla sinistra era chiuso

superò la casa girevole ai confini della piazza

nascosto

un timido vicolo portava verso la chiesa

un tempo macerie fumanti avevano preso il posto

del piccolo borgo brulicante di artigiani

e raccontatori di leggende attorno a grandi fuochi

ora il belvedere aveva sostituito le case in pietra

amava quell'angolo

amava immaginare tutti gli anziani che ancora

si aggiravano per quella strada

amava immaginare quelle pietre vecchie di

sessantacinque anni spazzate via dal disprezzo teutonico

fermò la macchina

la nebbia minacciosa sembrava cascasse dal cielo

la campana enorme ed immobile si intravedeva dentro

il campanile

scese senza fretta

salì la piccola scalinata che portava al piazzale

arrivò col cuore in gola

l'emozione della valle lo investì

così come il profumo di prato bagnato

così come la maestosità delle montagne di fronte

ai suoi occhi lucidi

era il suo Paese

si affacciò sporgendosi leggermente

lungo il muretto bianco truccato con vecchie scritte sciocche

la valle di un verde accecante

la piccola masseria proprio al centro

e mentalmente ripercorse tutti i nomi dei paesi vicini

poté scorgere la grande roccia sulla quale poggiava

la sua grande casa bianca

prese la macchina fotografia

aprì l'obiettivo

poi lo richiuse

non poteva immortalare ciò che conosceva nei minimi dettagli

impresse le immagini nella sua testa

e tornò nella sua macchina color turchese

la sua camera oscura molto privata

prese il suo vecchio blocco bianco e la matita

cominciò a scrivere del suo Paese

la mano tremava sotto l'impeto di quella grande chiesa

impressa di una solitudine impietosa

e immersa in un assordante silenzio

fece scorrere la matita sul foglio bianco

decise il titolo

il fotografo che sviluppò le foto con la penna

e cominciò a scrivere di quelle case nascoste

di quello sperduto promontorio in un angolo di nubi

chiamato Capracotta...


Emanuele Fusco

 

Fonte: E. Fusco, Il fotografo che sviluppò le foto con la penna, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.

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