Le stagioni si inseguivano in maniera incoerente
era la mattina di un giugno piovoso
alla fine di quattro impervi tornanti
e vide apparire come una fotografia sfocata
il piccolo Paese che resisteva alle montagne
quella mattina era avvolto da folte nuvole basse
da lontano poteva scorgere il campanile bianco
maestoso guardiano del burrone misterioso ed infinito
piccole case dalle facciate bianche
erano sormontate da tetti rossi
geometrici e scintillanti all'ombra di quell'insolita nebbia
la macchina procedeva adagio
adorava scrutare particolari che conosceva a memoria
l'incoerente casa gialla all'entrata del Paese
l'antenna dietro casa sua
la grande croce arrugginita sull'estremità del monte
con accanto quel piccolo colle che lui aveva sempre
ritenuto inutile e brutto
arrivò all'innesto
crocevia impervio di quattro strade
una conduceva a valle
le altre due ingannevoli e gemelle
verso la stessa direzione
il Paese
la pioggia aumentò d'intensità
e scelse la ripida salita di sinistra
il cartello indicava meno di un chilometro
all'ingresso del Paese
lo scorse fra la nebbia
il cartello bianco con dieci caratteri stampati in nero
sospirò profondamente
era l'unico molo dove attraccava sempre volentieri
dove nessuna burrasca poteva mai metterlo in pericolo
dove il vento spirava sempre in direzione
del cielo sereno
nonostante le nuvole basse
attraversò il viale diritto come disegnato da un righello
la piccola chiesa rosa a sinistra
il parco artificiale a destra
una nuova statua ma vecchia si stagliava al centro di
piccoli pini appena tagliati
la strada saliva leggermente a destra
poi rallentò
la svolta a sinistra
la salita che si perde a batter di ciglia
poche macchine testimoni del suo passaggio
l'asfalto bagnato
una signora vestita di nero uscì da un portone verde
al suo passaggio
rallentò per salutarla
anche se non la conosceva
quelle case erano la sua famiglia
erano i suoi rifugi
salì con la seconda marcia
amava indovinare i cambiamenti dall'ultima volta
non ne vide molti
la macelleria sulla sinistra
continuò fino a giungere all'ennesima chiesa
guardiana del corso principale
quattro macchine erano parcheggiate sul lato sinistro
lasciò la sua vicino alla chiesa e scese
si avvicinò al bar principale
correva per non bagnarsi
centrò in pieno due pozzanghere che i sampietrini neri
non erano riusciti a smaltire
imprecò
era il suo Paese e sorrise
aprì il portone verde
una musica ripetitiva fuoriusciva dallo stereo
salutò il proprietario perennemente imbronciato
indossava una polo azzurra a maniche corte
nonostante il giugno incoerente
pantaloni stretti con scarpe marroni di marca
i capelli neri tenuti assieme dalla brillantina
si abbracciarono con un fragoroso affetto
bevve il caffè bruciato
specialità tipica del bar
salutò due avventori di mezz'età troppo presi
con l'azzardo virtuale
pagò con quattro piccole monete e se ne andò
riprese la macchina
la salita fu dolce la strada svoltava a destra
il vecchio asilo sulla sinistra
poi la sua enorme casa bianca
il terrazzo era sempre lì
nessuna macchina parcheggiata
rallentò
abbassò il finestrino
le persiane vestite di marrone erano sigillate
l'enorme portone anch'esso marrone era zuppo di pioggia
richiuse il finestrino e senza spingere l'acceleratore
si diresse in discesa verso la piazza
l'orologio bianco batteva i suoi minuti in anticipo
come se volesse anticipare l'ora del riposo serale
il bar sulla sinistra era chiuso
superò la casa girevole ai confini della piazza
nascosto
un timido vicolo portava verso la chiesa
un tempo macerie fumanti avevano preso il posto
del piccolo borgo brulicante di artigiani
e raccontatori di leggende attorno a grandi fuochi
ora il belvedere aveva sostituito le case in pietra
amava quell'angolo
amava immaginare tutti gli anziani che ancora
si aggiravano per quella strada
amava immaginare quelle pietre vecchie di
sessantacinque anni spazzate via dal disprezzo teutonico
fermò la macchina
la nebbia minacciosa sembrava cascasse dal cielo
la campana enorme ed immobile si intravedeva dentro
il campanile
scese senza fretta
salì la piccola scalinata che portava al piazzale
arrivò col cuore in gola
l'emozione della valle lo investì
così come il profumo di prato bagnato
così come la maestosità delle montagne di fronte
ai suoi occhi lucidi
era il suo Paese
si affacciò sporgendosi leggermente
lungo il muretto bianco truccato con vecchie scritte sciocche
la valle di un verde accecante
la piccola masseria proprio al centro
e mentalmente ripercorse tutti i nomi dei paesi vicini
poté scorgere la grande roccia sulla quale poggiava
la sua grande casa bianca
prese la macchina fotografia
aprì l'obiettivo
poi lo richiuse
non poteva immortalare ciò che conosceva nei minimi dettagli
impresse le immagini nella sua testa
e tornò nella sua macchina color turchese
la sua camera oscura molto privata
prese il suo vecchio blocco bianco e la matita
cominciò a scrivere del suo Paese
la mano tremava sotto l'impeto di quella grande chiesa
impressa di una solitudine impietosa
e immersa in un assordante silenzio
fece scorrere la matita sul foglio bianco
decise il titolo
il fotografo che sviluppò le foto con la penna
e cominciò a scrivere di quelle case nascoste
di quello sperduto promontorio in un angolo di nubi
chiamato Capracotta...
Emanuele Fusco
Fonte: E. Fusco, Il fotografo che sviluppò le foto con la penna, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.