IAW-RF-A053: è questa la sigla presente sull'audiocassetta conservata nella Biblioteca del Congresso di Washington. Quel nastro fa parte del progetto "Italian Americans in the West", una collezione di manoscritti, registrazioni sonore e materiale fotografico raccolto nel 1992-93 da diversi ricercatori universitari in occasione del cinquecentenario della scoperta dell'America che, come tutti sanno, avvenne per mano dell'esploratore italiano Cristoforo Colombo.
Su quel nastro, dicevo, vi è anche una lunga intervista condotta dal prof. Russell Frank a due italoamericani, Louis e Frances Paglione, nipoti di «grandpa Paglione e grandpa DiTella», due capracottesi emigrati in America nel lontano 1903, spinti dal fatto che lì «si trova l'oro per strada». Approdati ad Ellis Island, Di Tella e Paglione erano finiti dapprima a Boston, in una fabbrica di argenteria, poi a Pueblo, in Colorado, uno in fonderia, l'altro in acciaieria. Allora gli italiani erano malvisti, venivano chiamati «dagos, wops, black-hatters [o] mafia members» e a loro venivano affidati i lavori più infami, più pericolosi, almeno finché non arrivò la sindacalizzazione e il relativo massacro di Ludlow. Si lavorava 13 ore nel turno giornaliero, 11 in quello notturno.
Di Tella e Paglione erano venuti insieme in America ed insieme si erano stabiliti a Bessemer, un misero sobborgo sorto nel 1886 alle porte di Pueblo. Avevano persino deciso di stringersi in famiglia, visto che il figlio diciottenne del Paglione avrebbe sposato la figlia quindicenne del Di Tella nella Chiesa del Monte Carmelo, retaggio del culto allora vivissimo a Capracotta. Così fu: dal matrimonio di Antonio Paglione e Lucia Di Tella nacquero ventidue figli e ne sopravvissero appena sette. Luigi, il figlio maggiore, nacque il 18 aprile 1917; Francesca il 30 maggio 1929, ultima di quattro sorelle. Nel 1933 morì grandpa DiTella, nel 1947 grandpa Paglione.
Gli intervistati non esitano a raccontare quanti più dettagli ricordano dei loro genitori, come quella volta che la madre Lucia, in treno, aveva provato a mangiare una banana appena acquistata senza sbucciarla, «perché non ne aveva mai vista una prima». A casa si parlava sia l'italiano che l'inglese ma Luigi dice che nel 1921, quando era venuta da Capracotta la nonna, «non aveva mai visto una lattina e non sapeva aprirla». Son questi aneddoti che commuovono un nipote di emigrati come il sottoscritto.
Russell Frank, l'intervistatore, fa domande precise, che indagano la vita degli italoamericani nel contesto storico americano, tra cui una domanda sulla Grande depressione del 1929, quando la famiglia Paglione viveva al 1038 di East Routt. Il padre Antonio faceva allora il carpentiere, motivo per cui «hanno sempre avuto una bella casa». Tuttavia quei nomi italiani, Luigi e Francesca, erano mal pronunciati dalla maggioranza della popolazione Anglo, ed ecco che nel 1937 si decise di cambiarli in Louis e Frances, primo evidente segnale di una perdita d'identità (identity loss) a cui tutti gli emigrati, prima o poi, vanno incontro.
Riguardo alla segregazione, Francesca risponde che sì, Bessemer presentava una «distinzione in classi» ed era ghettizzata: perlopiù italiana, con East Bressemer slovena e Salt Creek messicana. Attraversare il ponte tra le due zone significava fare a botte. A Bessemer vi erano chiese nazionali e drogherie diverse per ogni etnia, vi erano pure 4-5 negozi italiani in cui i boss vendevano certificati di cittadinanza a 25 $ l'uno. In casa si faceva il vino col torchio (150 barili), si cuoceva il pane al forno e si realizzava la salsa (10 quintali di pomodori), proprio come da noi. Poi Antonio Paglione si trasferì nel quartiere centrale di Mesa, dove costruì un bilocale che gli permise di andare a lavoro in bicicletta. Lucia si mise invece a vendere il pane.
Il prof. Russell pone anche una domanda sui proverbi familiari e Luigi ricorda che il nonno diceva spesso «You do good and forget it, you do wrong and remember», che in capracottese rende meglio: fa' bène e scòrdate, fa' màle e pènzace. Insomma, era una tipica famiglia capracottese emigrata.
Dopo aver lavorato nella stessa fabbrica del padre - Luigi e l'altra sorella Rosa per 43 anni, Francesca per 29 anni - quest'ultima ha persino aperto, tra il 1984 e il 1988, un negozio di prodotti italiani chiamato "Francesca's Italian General Store" in cui vendeva macchine impastatrici, pasta, panini, formaggio e salumi.
A questo punto Frank Russell annota che «gli italiani tendono a darsi a cuore aperto», uno stereotipo che forse tanto stereotipo non è. Si parla di scioperi, dell'occhio di Antonio perso sul lavoro e mai indennizzato, si parla degli amici italoamericani, si parla dei nomignoli affettuosi (Antonio era soprannominato Paisano) finché l'intervista non termina in modo un po' amaro ma dannatamente vero.
Luigi, infatti, non voleva lavorare tutta la vita in fabbrica, il suo sogno era quello di aprire un negozio di idraulica ma, durante l'apprendistato, il capo lo aveva definito «un dannato immigrato dal colletto rosso [cattolico, n.d.a.]». Quando il capo chiamò suo padre per far tornare Luigi a lavoro, Antonio gli disse che «se io fossi Luigi tu non saresti qui, ti ammazzerei sul posto». Insomma, il passato è bello soltanto a ricordarlo.
Tutti i Paglione che oggi vivono a Pueblo - e sono tanti - sono discendenti di grandpa DiTella e grandpa Paglione. Sono pezzi di Capracotta persi nel Colorado del sud.
Francesco Mendozzi