Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Marinelli, Isernia 1998.
Dice bene Sebastiano Martelli nella prefazione: «Con questo saggio Giambattista Faralli assolve un debito non solo suo ma della comunità molisana nei confronti di un protagonista della vita culturale e civile». Molto garbatamente, Martelli sorvola su un debito più particolare, e forse ancora più difficile da pagare: quello di sottrarre Franco Ciampitti alla retorica del tratturo, del fiume verde, delle pecore, del formaggio, che soffoca ormai da un trentennio Ciampitti come una specie di abbraccio mortale: una stretta che tanto più si rinsalda, quando si accompagna alla retorica ecologista più sbrindellata. Che Ciampitti non sia autore limitabile alla mitologia dei tratturi lo viene appunto a dimostrare, nella maniera più ampia e metodica, il lavoro che Faralli ha condotto sulla sua opera. Lavoro che, anzi, si spinge molto oltre, tentando di aprire qualche crepa nella massiccia zona di silenzio e di mistero che Ciampitti ha posto fra sé e la sua produzione letteraria: un qualcosa di sommamente trattenuto, che si riverbera ora in certe sospensioni del racconto, ora in certi blocchi, certe confusioni, appena percettibili, dell'enorme lavorio mentale che si intravede dietro ogni opera di Ciampitti, dietro la scrittura apparentemente pulita e lineare, a sopperire ad una povertà fantastica così evidente, sin dalla trama fotoromanzesca di lavori come Cerchi o Novantesimo minuto, come Faralli denuncia con una schiettezza a volte anche troppo pronunciata.
Altrettanto evidente è che Ciampitti trovasse nel racconto breve la sua cifra essenziale, con un timbro ulteriormente affinato nella parte estrema della sua produzione, i racconti del Grande viaggio, fino a sublimarsi nella storia che dà il titolo alla raccolta: un vero piccolo capolavoro, dedicato al mito che aveva trovato nella Steppa di Cechov (storia di un viaggio) una delle sue migliori incarnazioni. E il grande respiro dell'opera di Cechov sembra tutto addensato nel breve racconto di Ciampitti, i tremori del piccolo Egoruska nello sbalordimento, le paure, le curiosità del citro molisano che viene portato per il "regno delle foreste e delle nevi" che separa Isernia da Capracotta. Piccola steppa molisana, per nulla ridimensionata, nei ricordi di Ciampitti, dalle impressionanti distese della Lapponia che aveva lungamente visitato, lasciandovi tracce egregie, rilevate da un testimone della statura di Indro Montanelli. Sono tutti racconti, quelli del Grande viaggio, condotti "con una modestia, una semplicità di mezzi linguistici, una naturalezza espressiva" che rivelano nel suo approdo ultimo "lo smaliziato inventore di romanzi sportivi, psicologici o sociali". Una parabola, comune a molti grandi scrittori, teorizzata da Borges nell'introduzione ad una sua altrettanto tarda raccolta di racconti, scritti, a suo dire, ad imitazione di quei "laconici capolavori" che erano i primi racconti di Kipling.
Qualche volta ho pensato – spiegava Borges – che ciò che ha concepito e eseguito un ragazzo geniale, possa essere imitato senza immodestia da un uomo sulla soglia della vecchiaia, che conosce il mestiere [...]. Ho tentato, non so con quale fortuna, di comporre dei racconti lineari. Non oso affermare che siano semplici; non c'è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia, poiché tutte quante postulano l'universo, il cui noto attributo è la complessità.
Sono parole che aderiscono bene all'arte di Ciampitti. La sua "naturalezza" di scrittore è una caratteristica assai ben specificata da Faralli, in conformità con un concetto leopardiano cui la dichiarazione poetica di Borges non è certamente estranea: tutt'altro che come condizione "primigenia", non ancora inquinata, cioè, dalla pratica letteraria, quella naturalezza è intesa come "faticosa conquista", "punto d'arrivo" dello scrittore. Perché nella "naturalezza" "leopardiana il mestiere, e questo vale per il Ciampitti de Il grande viaggio, è tutto". Cechov, Kipling, Borges: evocazioni azzardate, potrebbe darsi, ma sarà più opportuno riparlarne, per esempio, dopo un'accurata ristampa dei racconti del Grande viaggio, dell'ellittico La vigna, dell'enigmatico Bambole, dedicato da Ciampitti "alla sorella Dadà" [Ada], cattiva e bella: testo che fa pensare a quale altro scrittore sarebbe diventato, Ciampitti, se avesse voluto sacrificarsi in quella forma di vitreo, allusivo, sintetico sperimentalismo. Altri racconti sono tuttora dispersi in riviste (Venatoria, Ciclismo d'Italia, Motonautica) che oggi suonano così improbabili e lontane.
Inevitabile è pure il raffronto con Giose Rimanelli, proposto con tratti assai teneri da Faralli, per l'epoca in cui egli si trovava nella complicatissima posizione mediana fra due personalità così potenti e così ombrose. Poca roba dentro, e molta fuori, nel primo; ritegno, pudore, monacali reticenze, in Franco Ciampitti, che fa pronunciare ad Angelo, il garzone che studia da massaro, nel Tratturo, il precetto morale cui aveva informato la sua carriera letteraria: "Un vero uomo non deve scoprire agli altri come è fatto dentro". Eppure, quando si andranno a tirare le somme, a mettere sui piatti della bilancia i pesi portati dall'uno e dall'altro, fra i due scrittori, si vedrà quanto sia più sorprendente scavare nello scrittore Ciampitti, inseguirne, nell'opera, certe pieghe segrete, scovare le piccole crepe di un granitico sistema difensivo e fissarvi lo sguardo, per rubare qualche piccolo squarcio di un interno che si indovina profondissimo, e per niente tranquillo. L'atmosfera decadente e anche parecchio maledetta in Rimanelli, diciamo da Graffiti in avanti, appare ricreata a bella posta, come bacilli delle peggiori malattie riprodotti in laboratorio, tra fiale, alambicchi, siringhe, microscopi, coloratissimi vapori chimici, e con molta cautela, per il timore di infettarsi veramente. Gli abissi sono sempre in edizione ridotta, mai troppo terrificanti. E anche la straripante fioritura dei sentimenti, fra baci, abbracci, addii interminabili e continuamente rinnovati, con uno spirito sempre un po' tendente alla piagnoneria, ricorda la lussureggiante flora tropicale riprodotta negli orti botanici, quando non nella plastica di certi salottini borghesi di qualche anno fa.
In Ciampitti si intuisce una specie di magma pietrificato, come gli enormi blocchi neri che stanno alla base di certi templi, in oriente. Sotto di essi, appoggiato l'orecchio alla superficie, si avverte un remoto, possente ribollire, che nulla sembra avere a che fare con la storia, pure vivissima, vicina, seria, alla quale Ciampitti rimanda con la sua stessa persona: lo zio Nicola Falconi, statuario deputato, poi senatore, perfetta illustrazione delle presenze molisane in parlamento, così massicce e decorative, e così inutili; il padre Giovanni, anticipatore piuttosto misero, all'epoca della sua militanza nel partito popolare molisano, dei bizantinismi, degli acrobatismi dialettici e di tutta la moderna contorta terminologia della sfiducia costruttiva, della non-sfiducia, delle convergenze parallele, degli equilibri più avanzati, tramandata come moroteismo, poi costruttore e fra i primi colossi della DC molisana dell'epoca recente. Del tutto assenti da questa storia, come già osservava il prof. Colapietra, sono le vicende "democristiane" dello stesso Franco Ciampitti, che di quella DC popolata di cannibali fu tra le vittime più illustri, quando ebbe la cattiva idea di candidarsi al Senato. Evento amaro, certamente, ma il rombo di cui arriva solo qualche lontana eco, nell'opera di Ciampitti, sembra avere radici diverse, assai più calate nel ventre della terra, e ricoperte da una crosta imperforabile.
Solo Faralli, unendo la sua incisiva strumentazione critica alla familiarità personale, e a una profonda conoscenza del quadro storico e ambientale che fa da sfondo, poteva cominciare a saggiare, a scandagliare, arrivando ai primi, importanti risultati: il tormento del dubbio, l'incertezza e la malattia del vivere, mista in Ciampitti a certe pulsioni segrete, con i relativi contrasti, fra la potenza dell'urto e la rigorosa imposizione etica della loro assoluta inconfessabilità. La faccia di Ciampitti più offerta alla luce del sole, "il modello personale di eticità più o meno eroica, più o meno misticheggiante", pure con le sue ossessioni, troverà la sua risoluzione ultima in quella stupenda immagine di decadenza, di fine, che è la figura del massaro Cola, con il suo dramma individuale, "ultimo scacco di un'esistenza personale che nel tempo ha perso il suo valore, e di una "storia" collettiva che precipita". Rimane da augurarsi che questo lavoro di Faralli riporti all'attenzione anche l'eccellente saggio che su Ciampitti scrisse Giuseppe Caroselli, il quale completa con quel tocco di calore, di umana sensibilità, di simpatia, ciò che in Faralli è rigore di lettura, dissezione a volte impietosa, per quanto affettuosissima e sempre rivolta all'accertamento della reale dimensione letteraria di quello che si può considerare senza ombra di retorica un autentico patrimonio regionale, e di quelli più preziosi, da tramandare. L'opera di Ciampitti, fra gli scrittori molisani degli ultimi decenni, diciamo dopo Francesco Jovine, è forse una delle poche in grado di resistere, uscendone caso mai innalzate, ad operazioni di scavo così rigorose, condotte così in profondità, così filologicamente fondate, avendo di fronte i testi, e non le memorie, le particolarità sentimentali, a volte le finzioni umanitarie, spesso vicine alla pietà. Quelle cose, per essere prosaici, vanno bene con gli scrittori scarsi; o con certi poeti per i quali, a voler sollevare qualcuna delle pietre lisce, asciutte, regolari, di cui è lastricata la loro carriera letteraria, si corre il rischio di vederne sprizzare un nugolo di vipere aggrovigliate, tra getti verdi di veleno, e sibili paurosi. Gli scrittori bravi e intelligenti, e buoni, come Ciampitti, non temono le perquisizioni più meticolose, tanto più quando le svolgono persone accorte, e altrettanto brave e intelligenti, e buone, come Giambattista Faralli.
Michele Tuono
Fonte: http://xoomer.virgilio.it/francafe/, 1998.