Andando nella piazzetta che sta sulla sommità del Colle, l'occhio corre subito al pittoresco verone di pietra, che orna l'antica casa dove una volta abitava zi Quintiliano.
La casa, di pietra grigia, a due corpi, con il tetto di lisce, sembra uscita dalla notte dei secoli: gronda vecchiezza da tutte le parti. Di aspetto grave, è piena di dignità nella sua cadente decrepitezza.
Vi abitarono anticamente i Baccari, famiglia agiata, di rango elevato, che dette alla Chiesa due vescovi.
Il verone, a forma di mezzo cono, esempio unico del genere in paese, guarda ad occidente e si trova proprio sulla cantonata della casa, metà su una facciata, metà dall'altra.
Un'aria di mistero avvolge l'antica loggetta e si espande sulle mura, ormai fatiscenti, della vecchia costruzione gentilizia.
La Società artigiana
La Società artigiana è una delle poche istituzioni che non ha subito contraccolpi dal rapido evolvere dei tempi e dei costumi.
La sua sede è ancora nel locale di fianco a Borrelli, sulla loggetta all'angolo.
Nei tempi evocati il sodalizio era circondato da un alone di rispetto e di simpatia. Forse lo è ancora: continua infatti a svolgere un'importante funzione sociale e culturale.
I ragazzi vi si recavano qualche volta, col permesso dei soci, per ascoltare la radio, non essendoci in paese possibilità di ascoltarla altrove.
Appesa ad una parete, in una cornice, c'era una lettera autografa di Garibaldi, ingiallita dal tempo, che faceva sempre molta impressione.
Nelle lunghe sere d'inverno i soci, riuniti attorno al braciere, si raccontavano i fatti del giorno e commentavano, spesso con spirito umoristico, le notizie radiotrasmesse. Alcune fra le più belle battute di Tatuccio, Luigiotto, Bettone, mastro Orazio, in auge ancora oggi, sono fiorite proprio lì, intorno al braciere: il grande braciere, testimone non del tutto sordo, se, a detta di zi Donato Tatuccio, doveva sorbirne di cotte e di crude: «Quànta n'ara sentì di chieàcchiare ŝtu vraciére!».
Zi Loreto Borrelli
Andare da Loreto Borrelli per prendere le misure dell'abito nuovo, era come recarsi ad un appuntamento importante, a cui ci si era preparati da tempo.
Imboccato il lungo corridoio dell'ingresso che conduceva alla sua bottega, eri preso da un senso di soggezione, perché, mentre procedevi, ti sentivi addosso gli occhi dei numerosi lavoranti apprendisti che ti guardavano dalla grande vetrata del laboratorio.
Ma appena entrato, coglievi sul viso buono di compà Loreto un atteggiamento di affettuosa accoglienza. Sembrava che ti aspettasse.
Prendeva il centimetro, il blocchetto di carta e la matita e cominciava a prendere le misure. Mentre misurava, ti parlava con una voce straordinariamente calda e affettuosa, che ti metteva completamente a tuo agio. E andando via, l'eco di quella voce dalle inflessioni dolci e armoniose, ti accompagnava per un pezzo.
Seppa
Di Seppa era pieno il paese; Seppa di Trasciotta, Seppa di Barabba, Seppuccia Dell'Armi. Quando si diceva Seppa, semplicemente, si voleva indicare Seppa dell'asilo. Era il braccio destro delle suore: la collaboratrice nella custodia e nell'assistenza dei bambini; la "tuttofare" nel disbrigo di ogni sorta di faccende. Non si faceva niente senza la mano di Seppa.
Paziente, mite, semplice, laboriosa, si contentava di niente.
Era a servizio dei piccoli da quando entravano nell'asilo fino a quando uscivano.
Qualche volta li accompagnava a casa, col cattivo tempo. Sistemava i cestini e il vestiario, appena entravano; li accompagnava al bagno; all'ora di pranzo aiutava la conversa a distribuire la minestra.
Ogni tanto correva ad asciugare qualche lacrima.
Ricordiamola mentre era all'opera in un momento qualsiasi della sua giornata. I bambini hanno appena mangiato la minestra nei piatti di alluminio. Siedono sui banchi a predella, lunghi lunghi. Comincia uno: «Seppa, dammi l'acqua». È il segnale. Tutti gli altri appresso: «Seppa, dammi l'acqua; Seppa, dammi l’acqua». È come una cantilena, che i bimbi ritmano dondolandosi.
Seppa, instancabile, corre dall'uno all'altro col bicchiere di stagno e il grosso secchio pieno d'acqua.
Passano gli anni. I bambini crescono, si fanno adulti. Quando incontrano Seppa per la via, la chiamano affettuosamente; lei si avvicina e dimenticando per un attimo che non sono più sotto le sue materne ali protettrici, li vezzeggia come una volta: «Fìglie mié! Fìglie mié!».
Come su tutte le cose, anche sul mondo piccolo di Seppa cala il sipario. Ma nel cuore di tutti è sempre vivo il ricordo di lei, di Seppa dell'asilo, che col suo fare operoso, si adoperava perché i piccoli di quel mondo fossero lieti e felici.
La filodrammatica
Durante l'estate di solito venivano in paese piccole compagnie drammatiche che davano spettacolo nella sala "Goldoni", sotto all'asilo o nel giardino di Ruggiero Falconi, sotto a mastr'Amico. Quell'anno non se ne parlava affatto.
I ragazzi, che da un pezzo ormai non andavano più nei prati di Conti o al Lago della Vecchia, decisero allora di preparare, essi, una recita per la fine di settembre.
L'idea era frullata in mente ad Avedonio Colangelo, che quell'estate si trovava in paese per le vacanze. Ne parlò agli amici, contagiandoli col suo entusiasmo.
Scelse il soggetto: il dramma "Il mercante di schiavi"; lo studiò, lo sottopose agli altri, che si trovarono d'accordo, poi assegnò le parti. Cominciò così, sotto la sua direzione, la preparazione della recita, che durò buona parte dell'estate.
Niente gite quell'anno. Il regista non transigeva: era severo con gli altri e con se stesso. La preparazione doveva essere accurata: faceva ripetere le parti fino alla stanchezza, suggerendo, correggendo, animando. Sembrava nato sulla scena.
Ogni tanto scoppiava qualche baruffa tra gli improvvisati attori e Avedonio doveva correre per sanare i contrasti.
Quando si ritenne di aver raggiunto un sufficiente grado di preparazione, si cominciarono ad allestire le scene nel teatrino dell'asilo, il "Goldoni", e si prepararono i costumi.
C'era una cert'aria di attesa da parte del pubblico, che aveva notato quel po' po' di tramestio. Quando tutto fu pronto, si fecero le prove generali e si fissò la data.
Venne finalmente il gran giorno per la filodrammatica.
Antonio zi Monaco interpretava uno schiavo negro e il giorno della recita si procurò del nerofumo e se lo passò senza risparmio su tutto il corpo. Era diventato più nero di un nigeriano. Sulla scena fece un grande effetto e tutti lo applaudirono, anche perché, burlone com'era, buttò giù qualche battuta fuori dello schema del copione.
Beh, le cose non andarono tanto male.
Il giorno dopo tutti da zi Monaco a vedere se aveva fatto la muta ed era tornato bianco. Era giù in cantina, dentro un tinaccio, nudo, ancora nigeriano nell'aspetto.
Stavano cercando con energiche insaponate e secchiate d'acqua calda di asportargli quella patina tirata al nero Brill, che gli stava diventando un po' antipatica. Certo, il grosso andò via, ma qualcosa rimase. Nei giorni seguenti zi Monaco, passando per le vie, richiamava l'attenzione di tutti, perché, pur non essendo più africano di Nigeria, con quelle occhiaie con l'ombretto e quelle sfumature tra il bruno e il viola, sparse un po' dappertutto, sembrava perlomeno un moro d'Arabia o, se si vuole, un meticcio d'America.
La signora Luisetta
Nell'angolo più tranquillo e soleggiato del giardino delle suore, sporgeva il balconcino della casa della signora Luisetta Falconi Panà.
La signora Luisetta nel piccolo salotto dietro a quel balcone impartiva lezioni di pianoforte ai ragazzi. Pochi mobili, il piano di fronte alla finestra del balconcino, vasi di fiori. Vi spirava un'aria di decoro e di lindezza. Da una foto incorniciata, posata su un mobiletto, sorrideva, lieto e felice, uno splendido volto giovanile di donna: una nipote lontana, in città.
Le dita della signora Luisetta sfioravano lievi la tastiera del piano come le ali di una farfalla. E, dolci e carezzevoli, si levavano le note della musica, rivelandosi come una cascatella sonora, oltre il balcone, nel giardino dell'asilo.
Tutto nella signora Luisetta aveva la lievità e l'armonia di una carezza: le movenze, la voce, il sorriso. Gli allievi ne subivano il fascino.
Carnevale: la casa '900
In quegli anni fu ristrutturata la casa di don Pasqualino Conti, sotto al Colle. La nuova casa, di linee moderne, fu subito chiamata "La casa '900", perché, appunto, di stile novecento, quello allora in auge.
Con la facciata bianca ad intonaco liscio e le grandi finestre riquadrate con gli stipiti e le mensole di travertino, metteva non poco in soggezione le vecchie case vicine, quelle di Nestorino e di mastro Nicola.
Nei ragazzi era forte il desiderio di dare un'occhiata agli interni per vedere com'era fatta dentro. E l'occasione si presentò a Carnevale.
Non era certo il tempo, quello, per le grandi mascherate di una volta, le quali, a detta degli adulti, impegnavano tutta la gioventù del paese e si svolgevano, per la complessità e la varietà dell'azione scenica, nelle piazze e lungo le vie principali. Qualcosa tuttavia si faceva, specie da parte dei ragazzi.
E questi, approssimandosi l'ultimo giorno di Carnevale, ci si misero di buzzo buono e approntarono alla bell'e meglio una mascherata, riadattando due scenette ripescaste nel vecchio repertorio carnevalesco paesano. Per i costumi, rimediarono frugando nei vecchi trapanni sotto il letto e negli armadioni dei nonni.
E così la sera di martedì di Carnevale si fecero coraggio e cominciarono a girare per le case.
Giunti a Sant'Antonio, suonarono, con un po' di apprensione, alla casa di don Pasqualino, la casa '900.
Furono subito introdotti nell'ampio salone a pianterreno, che piegando a gomito, si prolungava fino alla facciata posteriore, verso i Ritagli.
Vennero i figliuoli di don Pasquale, con una cert'aria di curiosa attesa dipinta sui volti. Dopo qualche parola di convenevoli, le povere maschere, venute al dunque, iniziarono lo spettacolo, fortemente suggestionati dall'ambiente, così nuovo e inconsueto. Si stava andando verso un impappinamento generale. Ad un certo punto, come era da prevedersi, si fermò tutto. Gl'impaperati commedianti si guardavano l'un l'altro, confusi. Cominciò a trillare qualche risatina birbona. Finalmente intervenne la signora Conti e con garbo e abilità sbloccò la scalcinata compagnia dall'impasse in cui era precipitata.
La recita proseguì.
Alla fine la signora offrì, con la stessa abile cortesia, pasticcini e cioccolatini.
Uscendo, i commedianti, risollevati, si fermarono un attimo nell'androne, sbirciando, curiosi, attraverso le rampe della scalinata, i vani del piano superiore.
Si ritirarono un po' frastornati, ma lieti come pasque per l'accoglienza cordiale e per aver visto finalmente gl'interni della casa '900.
Domenico D'Andrea
Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.