Quando la tormenta ci tappava inesorabilmente in casa, e ciò accadeva svariate volte nel corso della lunga invernata capracottese, noi ragazzi non ce ne davamo minimamente pensiero, anzi ci godevamo. Avevamo pronti i rimedi, quelli che offriva la casa stessa con i suoi ampi spazi, che sembravano fatti apposti per dare libero sfogo alla nostra inesauribile fantasia ludica. Le stanze inutilizzate, i fondaci, le soffitte buie e ingombre di ogni sorta di cianfrusaglie, i sottoscala e le scale non aspettavano altro che diventare campo di giuoco.
Eravamo sette o otto fra cugini e cugine, tutti scaglionati entro l'arco cronologico della prima età. Il gioco che veniva subito in mente era a nascondino. Fra anditi e soffitte ce ne voleva per stanarti. Ma il più esaltante era l'altalena. Si trovava in un vano del piano inferiore, un tempo bottega di falegname, allora adibita a granaio e dispensa. Il canapo con la predella dell'altalena pendeva da un grosso gancio conficcato in una trave del solaio. Vi si montava a rotazione, ma nessuno voleva scendere se prima non provava l'emozione di essere sospinto vigorosamente e lanciato su a mozza respiro fino al soffitto.
La bufera ruggiva sollevando turbini vorticosi di neve, che ridisegnavano tutti gli anni il medesimo rilievo fatto a dune. Era così perché i giochi dei venti erano sempre quelli. L'area davanti a casa era tutta spazzata, ma poco più avanti, fra le botteghe dei falegnami e gli orti, si formavano cumuli alti tre metri buoni. Lo spolverio bianco velava tutto. Gli oggetti perdevano la loro forma, si annullavano nel biancore turbinoso. Il vento sibilava fischiando nelle fessure e sotto le porte. Quando di notte il suo urlo lungo e rabbioso ti svegliava e udivi sbatacchiare porte e imposte, t'immaginavi un genio furioso e scatenato, intromessosi in casa, pronto a spazzare via tutto.
Di rado il portone di casa si apriva e quando ciò avveniva, si sentiva il pestare forte dei piedi di chi entrava, che si scrollava così la neve dalle scarpe. Tutti accorrevano a vedere chi fosse, primi noi bambini perché speravamo che fosse la persona da noi attesa: il novellatore.
Il novellatore era il cugino Eduardo, ormai giovanotto; abitava a poca distanza, sulla via Nuova. Faceva il muratore. Ora che era inverno, si riposava orzatamente come tutti gli altri del suo mestiere. Aveva fatto qualche classe oltre la quinta, la sesta, credo, e aveva perciò una infarinatura culturale e sapeva esprimersi con notevole efficacia. Leggeva romanzi storici e cavallereschi e da essi traeva materia per i suoi racconti. Ma novellatore si nasce, come si nasce poeta, e Eduardo era proprio un contastorie nato. Quando faulava, l'uditorio pendeva dalle sue labbra. Il fatto narrato, a restringerlo, si riduceva a poco, ma Eduardo conosceva l'arte di abbellirlo, colorarlo, ampliarlo, enfatizzarlo anche laddove andava fatto.
Noi, sapendo che il novellatore era spesso al verde, raggranellavamo, soldo a soldo, una mezza lira e mandavamo a comprare, per il primo adulto che si azzardasse ad uscire, mezzo pacchetto di sigarette per invogliare l'impagabile faulatore a scendere.
In casa c'erano bensì anche altri novellatori, che all'occasione se la sapevano cavare abbastanza bene. C'era chi raccontava il fatto di mastro Valente, quello che con un colpo ne faceva millecinquecento. Raccontava solo quello: ma ogni volta lo arricchiva di particolari inediti, creati lì per lì. Alle smargiassate dell'orco e più ancora a quelle di mastro Valente, il narratore non si teneva più e caricava con enfasi.
C'era chi raccontava fatti storici verniciati di uno spruzzo di politica socialisteggiante, ad uso dei bambini, s'intende.
La contastorie più apprezzata, dopo Eduardo, era Consiglia, qualche anno più avanti di noi. Sapeva raccontare, con inimitabile grazia, le storie di Prezzemolina, della Principessa del sapone, della gattina vedova: le infiorava di tenere espressioni dialettali, assorbite certamente con l’orecchio teso ai discorsi delle donne.
Lo zio Vincenzo non raccontava favole. Raccontava episodi di vita vissuta che avessero qualche comprensibile significato morale. Narrava fatti della vita di padre Giuliano, frate, patriota e uomo di mondo, suo precettore, che aveva fatto parlare molto di sé per le sue idee liberali, non conformiste. Un giorno l'energico frate, trovandosi alle strette, aveva fatto le feste a un brigante, nella Marsica, in una drammatica lotta a tu per tu, che non lasciava possibilità di scelta. Ma quando non poteva uscire di casa per la neve che bloccava la sua bottega e per la bufera, mastro Vincenzo prendeva il flauto, conservato dai tempi della banda cittadina, e suonava motivi d'opera, fra lo stupore ammirato di tutti, grandi e piccoli.
Il novellatore per eccellenza, il faulatore era però, come detto, il cugino Eduardo. Veramente, alle fiabe vere e proprie, lui preferiva le gesta cavalleresche, le avventure di cappa e spada. C'erano fior di personaggi nelle sue narrazioni strabilianti, lunghe fuor d’ogni limite per secondare l'insaziabile bramosia fabulatrice del suo uditorio. C'erano castelli incantati, banchetti, nozze sontuose. Quando il ricco forziere della sua memoria tendeva ad esaurirsi, il faulatore non si perdeva d'animo: di facile vena com'era e di accesa fantasia, creava disinvoltamente scene e personaggi, sulla falsariga di quelli conosciuti nelle sue letture. Naturalmente non lo dava a vedere perché l'uditorio avrebbe storto il muso se avesse capito che lui era un narratore estemporaneo, che inventava storie ad uso e consumo dei ragazzi.
Appena arrivava a casa, il novellatore era accolto con grandi manifestazioni di gioia. Era contento anche qualche adulto perché le storie belle piacevano a tutti. Lo tiravamo per la giacca al luogo della conta dei fatti, la cucina di zia Pulcheria, la più alla mano. Si attizzava il fuoco nel camino, si faceva cerchio intorno al faulatore e l'incanto cominciava; cominciava la sfilata dei cavalieri, delle dame, dei re e delle regine, dei principi, e delle principesse.
Certe sere Eduardo si vedeva che aveva fretta a tagliar corto. Allora faceva come il faulatore del Novellino, il quale una sera, preso dal sonno, arrestò la narrazione al punto in cui le pecore dovevano essere traghettate con un burchiello sull'altra sponda del fiume, ingrossato per la pioggia. Alle rimostranza del signore, irritato per l'interruzione, il faulatore se la cavò dicendo: «Messer, lassate passare le pecore, poi conteremo lo fatto». Similmente faceva Eduardo quando aveva fretta di andar via. Arrestava ridendo la narrazione, per esempio, ai piedi del letto del prtotagonista.
–Lasciamolo dormire, – diceva – domani riprenderemo a mente fresca.
(1987)
Domenico D'Andrea
Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.