Dopo un'ora di corsa la ferrovia abbandona i vasti piani. Ora la valle è diventata più stretta e il Sangro corre a gara con il treno. Come un'apparizione del Medioevo, vedo da lontano Castel di Sangro che domina tutto il paese con i ruderi del suo ampio castello e le due torri della chiesa. Le ultime case scendono fino alla pianura; il tutto immerso nella luce porporina del tramonto. Il sole è riuscito a forare i grigi nuvoloni e inonda prima di scomparire il paesaggio con i suoi ultimi dardi di fuoco.
Appena uscita dal treno, mi ritrovo con la mia valigia, seduta fra due carabinieri nella vettura che va al paese. La diligenza è di una primitività e di una semplicità commoventi. Il sedile non ha più paglia e pezzi di tela grigia fanno le veci dei vetri mancanti.
Sono indirizzata all'albergo di Roma, nome pomposo che nasconde, come generalmente in questa regione, una casa di infimo ordine. E purtroppo è così! Al Roma un cameriere, a turno facchino, servitore e macellaio, fa il servizio di tavola con il berretto in testa, un mozzicone di sigaro in bocca e le mani poco pulite. Mi fa l'effetto di un mezzo brigante e penso di chiudere bene, la sera, l'uscio della mia camera! Ma, ad onore dell'albergo Roma, devo dir che non sono mai stata molestata, però ero lieta di lasciare dopo due giorni quella casa poco rassicurante.
Se dopo una notte di tempesta, il cielo è tornato sereno, che m'importa se le finestre non chiudevano bene, se il letto era duro e le tende logore? Uscendo dall'albergo sono avvinta dal fascino della piccola città medioevale. Le strade lastricate e strette come androni, girano fra austeri palazzi e case vecchie. La città è dominata tutta dalla sua chiesa e scende in terrazze fino alla grande piazza. La chiesa parrocchiale è resa interessante dagli affreschi insigni del Solimena nel coro. La figlia del sagrestano mi fa vedere con ingenuo orgoglio le quattro Madonne in una foggia che si avvicina all'idolatria: abiti scintillanti, profusione di gemme sul petto e nelle dita affusolate, piedi calzati di scarpette dorate e un diadema sul capo! Bisogna esser nati nel Mezzogiorno per poter unire al sentimento mistico tanta precisione di particolari pagani. Io non potrò mai capire questo contrasto tra la semplicità del dogma cristiano e la forma pagana di cui l'ha rivestito il popolo minuto dell'Italia meridionale.
Dalla chiesa di Castel di Sangro, si sale per una salita penosa alla rocca che fu il superbo castello medioevale dei conti de' Marsi.
Le intemperie e il tempo che tutto annulla, sono passati su quei fieri massi di pietre e hanno sgretolato e rovesciato ogni muro nella loro continua opera di distruzione. Solo la chiesetta solitaria e il piccolo campanile si sono conservati intatti, abbandonati ora all'umidità e alla solitudine. Il custode, vecchio al pari delle sue rovine, mi apre l'unica cappella tutta affrescata di antichi dipinti del 400. II tabernacolo d'oro sull'altare mi colpisce con i suoi riflessi aurei ed azzurri che illuminano il piccolo santuario. In forma di tempietto, esso è custodito da soavi figure di santi dipinti su sfondo d'oro sulla tavola dell'altare.
Esco per entrare nel piccolo cimitero, tutto croci ed erbacce, che va morendo intorno alla chiesa e simboleggia l'abbandono e la decadenza di ogni cosa terrestre. In un buco del muro alcuni teschi macabri ghignano allineati su una mensola, simbolo più atroce della fralezza umana.
Del castello non rimangomo che alcuni grossi massi di mura sgretolate e qualche moncone di spigolo che da lontano danno l'illusione di un'alta torre isolata. In mezzo ai sassi e ai cespugli fioriscono dappertutto bianchi, morbidi, profumati fiorellini dai petali così vellutati e incolori che mi rammentano la nostra nivea stella alpina. Il panorama da questa alta rupe sulla valle del Sangro e sull'Appennino Marsicano è bellissimo. Vedo in basso la pittoresca città di Castel di Sangro con le sue chiare e liete case che scendono fino al fiume. Sulla costa rocciosa di una montagna ho la visione gentile di Capracotta, paese elevatissimo e biancheggiante nelle sue numerose caselle sparse sul pendio boscoso del monte.
Il custode mi ha narrato il tetro dramma che si svolse secoli fa attorno a quella fortezza. Ricostruisco con l'aiuto della fantasia la fosca scena e vedo Lollio, il truce guerriero sannita che fugge dal campo romano, e inseguito, ripara su questa rupe minacciosa. Già l'assalto del nemico sembra fallito per l'orrenda bufera di neve che si è scatenata sul paese, quando un raggio di luna, forando le nubi e illuminando all'improvviso l'erta roccia, rivela ai romani l'accesso al castello. Lollio fu trucidato e il castello dislrutto. Dicono che nelle notti di neve e di tempesta, l'ombra accasciata del fiero guerriero si mostri irrequieta tra i ruderi deserti e silenziosi.
Castel di Sangro è patria di Teofilo Patini; nel cortile della sua casa si trova il gruppo realistico di una Madonna quattrocentesca col Bambino, di fattura un po' rigida. Pochi passi più in là, ammiro la nobile e antica Casa del Leone in pietra scura e liscia con bifore di squisita grazia, e la torre tronca che prende il nome dal grosso leone di pietra che vigila alla sua porta. Bella casa caduta in mano di povera gente, meriteresti un destino più degno della tua nobile origine!
L'automobile postale mi porta l'indomani direttamente alla valle del Sangro che si stende da Barrea a Gioia Vecchia in piani verdeggianti e boschi sconfinati. Da Alfedena-Scontrone, la strada sale serpeggiando fino a loccare il pittoresco paese di Barrea, addossato in mezzo al verde cupo dei boschi e guarda la nudità della valle sottostante. Dopo due ore di corsa veloce, appaiono in una bella pianura l'oasi di Pescasseroli, il vasto cerchio di monti spogli e la macchia scura delle sue illimitate e vergini foreste.
(1926)
Maria Olgiati
Fonte: M. Olgiati, Impressioni e ricordi d'Abruzzo, in «Quaderni Grigioni Italiani», I:4, Bellinzona, 1° luglio 1932.