E poi andiamo via di lì e ci dirigiamo verso Capracotta. Saliamo verso la cima di fronte Capracotta, sulla quale si trova un'enorme croce in legno. Le guardie si accorgono immediatamente di noi. Poiché sta per abbattersi un acquazzone, deviamo verso il bosco, raccogliamo dei rami di alberi con foglie secche e prendiamo le misure necessarie per poter restare lì fino al crepuscolo e poi riuscire a fuggire prima che faccia notte, evitando Capracotta. Ma ecco che la pioggia incessante, il freddo insistente e la fame atroce mandano all'aria i nostri piani. Decidiamo di recarci a Capracotta e che vada come deve andare. Ormai non possiamo più sottrarci alla catastrofe che incombe su di noi.
Avanziamo verso Capracotta. Ci avvistano da lontano e danno il segnale con due rintocchi di campana. Sono sempre all'erta a causa dei briganti e, quando questi si avvicinano, battono tanti rintocchi quanti sono i banditi in arrivo. Entriamo nella piccola osteria vicino alla chiesa consacrata alla Beata Vergine di Loreto. L'eremita però non è lì, oppure si nasconde bene. Ci riposiamo un po'.
Dopo essere arrivato a Isernia e aver appreso che si erano persi tre prigionieri, il tenente colonnello aveva scritto alle città e ai villaggi vicini affinché facessero attenzione ai prigionieri evasi, promettendo cento ducati a chi glieli avesse riconsegnati.
Per questo motivo le guardie e i soldati di Capracotta erano stati così solerti nel vigilare. Non appena ci allontaniamo dalla chiesa, due di loro ci vengono già incontro. E mentre ci avviciniamo alla croce, ci stanno già aspettando. Quando scorgiamo la forma dei fucili sotto ai mantelli, capiamo di essere nelle mani dei nemici, di essere di nuovo prigionieri. Li salutiamo. Loro rispondono al saluto e ci conducono dritti in città. Nascondiamo tutto e chiediamo, da stranieri, dove possiamo procurarci del pane. Ribadiscono che dobbiamo seguirli e che presto ci indicheranno dove dobbiamo andare. Si fermano nei pressi della farmacia, che chiamano speciaria, mentre i farmacisti vengono chiamati speciales. Il farmacista chiede chi ci abbia donato la libertà. Rispondiamo che ci sentivamo deboli e che siamo rimasti indietro perché ci facevano procedere non come se fossimo prigionieri, bensì peggio di come si fa con le bestie. Ci minaccia ma alla fine ci lascia andare. Da lì in poi i soldati ci conducono in prigione.
Nel frattempo abbiamo paura che ci separino, sospiriamo insieme, preghiamo che la sciagura ci venga risparmiata, ci incoraggiamo a vicenda a dimostrar tenacia e, con una stretta della mano destra, ci promettiamo reciproca fedeltà e che nessuno crederà a quanto gli verrà riferito sull'altro. Abbiamo paura di essere condotti in prigioni diverse. Tuttavia, ci scortano nella stessa galera e ci ordinano di entrare. Quando chiediamo quale sia il motivo della nostra incarcerazione, un religioso lì presente ci rivela quanto scritto dal tenente colonnello. E, poiché son sudditi della Spagna, devono obbedire anche ai suoi ufficiali.
E così il 4 maggio ci conducono nella prigione di Capracotta.
La città di Capracotta in passato si chiamava Laurea Capra. Ma dopo che i briganti la attaccarono e saccheggiarono, abbandonando in una casa una capra lessata e cotta, la città prese il nome di Capracotta. Da quel momento, delle alte mura circondano il suo nucleo interno per difenderlo dagli attacchi dei briganti. Gli abitanti trascorrono l'inverno nelle Puglie col bestiame. Tornano a giugno e rimangono nella loro terra quasi quattro mesi. Niente giova loro quanto il formaggio, che da queste parti ha un sapore, un profumo e una consistenza molto buoni. Non è affatto simile al nostro. Non producono burro e, al suo posto, utilizzano l'olio d'oliva. Gli abitanti del posto hanno costumi rozzi. Ritengono che la devozione e la rispettabilità risiedano unicamente nel portamento e nei gesti. Per tutta l'estate vanno in giro armati per proteggersi dall'esercito, ma anche perché vivono nella paura costante delle scorrerie dei banditi. Del resto, se ne radunano duecento, cinquecento e a volte anche più: provengono dallo Stato della Chiesa e tornano indietro con un ricco bottino. Ancora oggi a Napoli e altrove dipingono, incidono e scolpiscono l'effige di quel famoso capobrigante che aveva riunito circa diecimila banditi ed era arrivato a minacciare perfino la città di Napoli! Alla fine venne catturato e decapitato. Questa città conta a malapena duecento case, un arciprete, dieci sacerdoti e dodici chierici. E ve ne sono in abbondanza anche in tutti i villaggi e paesi. Qui alcuni preti si sposano e fanno figli. Oltre alla messa si dedicano anche ad altre faccende e, quando muore loro la moglie, digiunano e celebrano una messa; tuttavia, si esige che la donna da sposare sia vergine. Le loro mogli hanno delle voci assai stridule e sono piuttosto litigiose. Sbraitano improperi a gran voce, si scoprono il petto e vi battono le mani sopra, si scoprono la testa e, quando si inginocchiano, pronunciano parole turpi e ingiuriose. Lo si poteva vedere quasi tutti i giorni dalla prigione. Confezionano da sole i propri vestiti e si coprono il capo. Hanno parecchi figli. Di domenica fanno le stesse cose che fanno gli altri giorni. Ovviamente, affermano di aver ricevuto il permesso dall'arciprete. Il giorno della solennità della Santissima Trinità, in quattro lavorano nella fucina del fabbro situata nelle immediate vicinanze della prigione. E sicuramente non è un bisogno impellente ad averli spinti lì. Non cuociono quasi mai il pane in altri giorni se non di domenica. La perizia dei fabbri per quanto riguarda le malattie dei cavalli e dei bovini, come anche la loro cura, è ammirevole. Sul dorso e sui fianchi delle pecore imprimono dei marchi a fuoco.
La nostra prigione si trovava in questa città e, quel che è peggio, si trattava di una prigione per malfattori. Senza dubbio, era già da un po' di anni che non la mettevano a posto: lo si poteva dedurre dalla grande sporcizia. Sopra la prigione c'era la cappella o - come la chiamavano - l'officium della Beata Vergine Assunta. C'eran tante pulci quanta sporcizia, ricoprivano l'impiantito come formiche.
Una parte di quella località era montuosa e molto fredda. Il giorno del Corpus Domini le cime erano ricoperte di neve.
Quel giorno in cui ci condussero in catene fuori dalla prigione (come racconterò più tardi), a valle - non ovunque - si intravedevano le prime spighe. Quando, il giorno dopo, ci recammo a Capua, davanti ai nostri occhi si presentò quasi un altro mondo, perché vedemmo il grano già mietuto che veniva riposto nei capannoni e la gente stremata per la forte afa.
Ci rinchiusero in quella prigione il sabato sera prima della terza domenica di Pasqua, ovvero il 4 maggio. Per le sei settimane successive non aprirono per farci uscire se non al momento in cui ci condussero via dalla prigione.
Una volta chiusa la porta della galera, ecco che si avvicinano alla finestra padre Antonio Cauliano, il rettore del ginnasio, e il naturalis - come qui chiamano i dottori in medicina - e ci interrogano sul motivo della prigionia, della fuga, della deportazione eccetera. I soldati del posto e le guardie della prigione frugano da cima a fondo tra le nostre cose. Non trovano nulla se non dei coltelli, che ci restituiscono per intercessione di padre Cauliano. Al dottore chiediamo dello zenzero per stimolare lo stomaco, che lui ci manda con grande gentilezza. Chiediamo a padre Antonio un sorso d'acqua. Questi prende la nostra borraccia, che ci eravamo procurati quando eravamo ancora a Trieste e che avevamo portato con noi dal Mar Adriatico, e fa in modo che venga riempita di vino, ce la restituisce e ci rifocilla a dovere.
Quando questi spettatori andarono via ne arrivarono subito degli altri. Tremavamo a causa del freddo e degli abiti umidi.
Quello stesso giorno, al crepuscolo, arrivarono le guardie e ci misero ai piedi dei ceppi di ferro così stretti e scomodi da permetterci a malapena di muoverci dal nostro posto. I blocchi non erano dotati di catena, ma solo di un lungo pezzo di ferro che bastava per serrare il piede di entrambi i prigionieri. Il ceppo che cingeva il piede del reverendo Masnitius era così stretto da non consentire nemmeno di cambiar posizione. Nonostante fosse la prima notte, la passammo in bianco sdraiati per terra.
Il pomeriggio del 5 maggio - terza domenica di Pasqua - venne da noi l'arciprete Pietro Paolo Carfagna, al quale avevamo scritto una supplica, affinché ordinasse di trattarci in maniera più gentile. Ce lo aveva consigliato padre Cauliano. Discutemmo con lui di molte questioni, del motivo della nostra deportazione, della religione luterana, la quale, per quanto concerne gli articoli della fede, gli era completamente sconosciuta, e del papa, riguardo al quale in tutta Italia veniva spesso posta questa domanda: crediamo nel papa? Su nostra richiesta diede ordine di rimuovere i ferri e le guardie obbedirono. Promise che ci avrebbero portato pane e acqua. In qualità di suo incaricato nominò il custode della chiesa, il chierico Biagio De Gabriele, a cui affidò il compito di farci visita. Il chierico lo fece e noi provammo in tutti i modi a conquistare la sua benevolenza.
Affinché non morissimo di freddo, di tanto in tanto ricevevamo del carbone che poi bruciavamo. Tuttavia, al freddo si aggiunse il fastidio delle pulci, che per notti intere non ci permisero di dormire. Se non lo avessi provato sulla mia pelle, di certo non avrei mai creduto che ne potessero sopravvivere così tante al freddo. Questi e altri disagi avevano tolto il sonno al reverendo Masnitius, il quale cadde in preda a una grave malattia che lo afflisse dal 9 maggio fino alla fine del mese. Per tre settimane dormì a malapena qualche ora, in lotta perenne contro le pulci, i pidocchi, il freddo, la quasi assoluta nudità, la fame, il vaneggiamento, la debolezza e altre sofferenze. Grazie a Dio, pian piano si riprese e riuscì a dormire per un paio di notti su una sporgenza della parete sopraelevata e quasi pulita, fin quando, poco tempo dopo, le pulci non arrivarono anche là.
Anch'io fui soggetto a un male simile e alle altre sofferenze e questo molti giorni prima che ci portassero via.
Quando cercammo di accendere un fuoco in prigione facendo ardere la legna che ci avevano passato attraverso la finestra, per poco non ci uccise il fumo che scese fin quasi a terra.
Per quanto riguarda il vitto, la guardia carceraria aveva il compito di girare tra la gente per chiedere la carità. Tuttavia lo faceva molto di rado. Ma l'arciprete e dottore apostolico Pietro Paolo Carfagna, di cui si è già parlato, e il maestro Antonio Cauliano all'inizio, quando ancora nutrivano un barlume di speranza d'una nostra conversione - se così si può dire -, ci mandavano spesso pane, uova e formaggio, e padre Antonio tre volte ci fece recapitare perfino carne arrosto e olio.
Era un'ottima cosa che non impedissero agli studenti di avvicinarsi alla finestra della prigione per darci di nascosto pane, carta, inchiostro e penne, le quali erano costose a causa della scarsità di oche e uccelli. Una penna costava un soldo. A loro piaceva ascoltarci parlare e cantare. Tra questi c'era anche un giovane, il brillante Girolamo Baccari, che fu per noi un vero e proprio corvo sostentatore. Non si presentava mai a mani vuote e, dopo che gli altri erano andati via, ci dava di nascosto pane, formaggio, olio, vino, uova, carta, pesce e, a volte, comprava per noi anche della carne. Non di rado ci elargiva pure del denaro. Che il Signore gliene renda merito!
Le donne del vicinato, commosse dal nostro canto, spesso ci dimostravano la propria compassione. Quando chiedevamo del filo, pane e acqua, ce li facevano recapitare tramite i figli. E loro stesse si avvicinavano alla finestra e desideravano fortemente scambiare qualche parola con noi. Ci chiedevano perlopiù delle nostre mogli, se non le avessimo per caso abbandonate. Molto spesso questi discorsi finivano per far piangere sia noi che loro.
Girolamo era solito portarci dei pesci d'acqua salata che avevano un aspetto orribile: senza le spine, gli occhi e senza gli altri organi di senso, con sei tentacoli.
Mangiavamo anche carne di carcasse. Le capre o le pecore malate che stavano per morire erano destinate al macello. I buoi e le vacche, invece, non venivano destinati alla macellazione e la loro carne veniva mangiata dopo che erano morti da soli. Dicevano che la carne fresca proveniente da bestiame sano fosse stata proibita dalle autorità. Era possibile procurarsela solo nelle città maggiori.
I servi e la gente comune si nutrivano anche di gatti. Non preferivano altri tipi di carne come in Spagna. Per questo motivo in una sola casa allevavano dieci, dodici, anche sedici o ventiquattro gatti e gatte, come da noi si allevano i porcellini o altri animali domestici. Anche Girolamo Baccari qualche volta si era vantato con noi di possedere e allevare in casa sedici gatti.
Tuttavia, di tutto questo non v'era traccia a Napoli o in città più grandi. Al loro confronto Capracotta era piuttosto rozza ed arretrata.
Anche i bambini spesso si avvicinavano alla finestra della prigione, sia maschi che femmine. In bocca avevano, com'era loro consuetudine, del pane intriso di saliva e ci incitavano a cantare. Quando ci davano il pane rosicchiato per metà, lo mangiavamo senza ribrezzo.
Questa prigione era più sopportabile rispetto a quella di Leopoldov in Ungheria, perché qui potevamo cantare, pregare, leggere e scrivere liberamente. Inoltre, si poteva anche dare e ricevere del pane senza incorrere in punizioni. Se solo ci fossero state delle persone disposte a darcene più spesso!
«Nei primi giorni – disse Masnitius – mi sono cucito la biancheria utilizzando un sacco. Il filo me l'ha dato una donna. La lingeria era utile, necessaria e adeguata, perché temevo fortemente che il mio corpo potesse restare nudo dopo la morte, visto che avevo già perso tutta la biancheria».
In prigione svolgevamo le seguenti attività. Ogni giorno ci alzavamo in lacrime, ci lavavamo, pregavamo per due ore, cantavamo in latino, slovacco e tedesco i canti mattutini, le odi (come vengono chiamate in genere) e i salmi penitenziali. Poi leggevamo i libri che ci aveva procurato Girolamo: il "Concilium Tridentinum", Orazio, le Metamorfosi di Ovidio, alcune orazioni di Cicerone e il "Chronicon seu Compendium rerum theologicarum" di Jan van den Bundere Parigino. Quest'ultimo ci era stato inviato dall'arciprete dopo la nostra disputa sul papa e sulla fede luterana, da lui definita una setta. L'arciprete ci fece avere anche un breviario con l'invito a leggerlo per verificare che il nostro modo di battezzarci fosse lo stesso eccetera. Dal breviario trascrivemmo alcuni salmi penitenziali e di altro tipo e qualche preghiera. A mezzogiorno cantavamo di nuovo per un'ora, pregavamo e così facevamo anche la sera. Inoltre, ci piaceva trascorrere del tempo conversando con gli studenti. Molti di loro pendevano dalle nostre labbra e ci aiutavano donandoci pane e altre cose. Per alcuni scrivemmo un esempio di manoscritto e di calligrafia, per altri degli indovinelli e per altri ancora dei versi scherzosi. Per l'arciprete componemmo una poesia con anagrammma triplo. E lo stesso facemmo anche per padre Cauliano e per Biagio De Gabriele, quando ottenne la carica di diacono. Ed anche per Girolamo. Da quei libri prendemmo degli appunti: li conservo ancora. Il tempo che avanzava veniva dedicato alla rimozione dei pidocchi e alla rammendatura degli abiti.
Quando implorammo di essere liberati, ci risposero che già il giorno successivo alla nostra incarcerazione un soldato orbo, il quale ci aveva catturati e imprigionati, era andato a Capua in cerca del tenente colonnello per informarlo che eravamo stati catturati e rinchiusi in prigione. Ci dissero che, se non avesse già dato questa notizia, sicuramente avremmo potuto ottenere la grazia. Ma adesso questo non era più possibile perché, probabilmente, la vicenda era giunta perfino alle orecchie del viceré di Napoli.
Il soldato in questione non riuscì ad incontrare il tenente colonnello perché quest'ultimo era stato colpito da una febbre fulminante e mortale, per cui il soldato se ne tornò tutto deluso, senza la ricompensa promessa. E, mentre noi due eravamo tenuti prigionieri, il tenente colonnello morì.
A quanto pareva, ogni speranza di essere liberati era sfumata e non ci restava altro rimedio se non la pazienza.
Ad Agnone (un paesino che dista da Capracotta sei od otto miglia italiane) lasciarono dei soldati malati, che si erano dati al vino a Capracotta. Temevamo che ci facessero andare via con loro. Tuttavia, dopo essersi ripresi, tre settimane dopo si recarono a Napoli senza di noi. Avevamo chiesto a Dio solo una cosa, di non finire più nelle mani dei soldati. Piuttosto ci sembrava preferibile rassegnarci a finire nelle mani del boia.
Il giorno dell'Ascensione furono arrestati quattro cittadini e, poiché erano rimasti nella stanza anteriore della prigione, eravamo certi che ci sorvegliassero, perché, presumibilmente, dovevano condurci dagli ufficiali da un momento all'altro. A ciò si aggiunse questo fatto: mentre giocavano a tirar sassi rotondi, ci sembrò senza ombra di dubbio che li stessero tirando verso la nostra prigione o, sicuramente, verso il tugurio più vicino situato accanto a dove ci avevano rinchiusi, in modo da ucciderci. Ma quando venimmo a conoscenza del motivo della loro presenza e di altre circostanze, ci rincuorammo.
Intanto ci consolava quella grazia divina che addolcisce i cuori delle persone. E, se per caso avessero avuto intenzione di venderci, non avremmo ceduto allo spavento, dicendoci invece che con la cortesia, la dedizione, l'umiltà e altre qualità non avremmo fatto fatica ad ottenere la grazia di esser liberati da qualunque padrone ci avesse esposti alla stregua di bestiame e messi in vendita. Ma Dio risolse la nostra situazione grazie ad alcune persone pie e nella maniera in cui meno avevamo immaginato la nostra agognata liberazione.
Ecco, dunque, il racconto della nostra liberazione.
Il 10 giugno, mentre eravamo in prigione, dei banditi saccheggiarono la città vicina. E, poiché sembrava che si stessero avvicinando a Capracotta, suscitarono tra i cittadini caos e terrore. Ovunque risuonavano le grida delle donne. Trasportarono bambini, indumenti ed altre cose verso il centro della città. Gli uomini, presenti perché erano già tornati dalle Puglie col bestiame, impugnarono le armi, spararono e si accingevano a scacciare i briganti. Vicino alla nostra prigione si trovavano sei tiratori. La prigione era infatti situata più in alto e davanti ad essa c'era un viottolo. Diedero dei fucili anche a noi ma ci rifiutammo di prenderli perché non ci intendevamo di armi. Tutti i preti e i religiosi erano armati. Uno di loro, di nome Domenico, che era sempre stato visibilmente benevolo nei nostri confronti, si avvicinò e ci disse che il momento della nostra liberazione stava per giungere, poiché i banditi avrebbero certamente forzato le porte della prigione e ci avrebbero concesso la libertà. Ciononostante, portarono via solo alcuni cavalli e poi lasciarono anche quelli, allontanandosi dalla città in un'altra direzione.
Nel momento in cui, di fronte al pericolo incombente, si era creato un gran subbuglio, a Capracotta si trovava un uomo proveniente da Teano, che era giunto l'8 giugno con dei cavalli per prelevarci. Tuttavia, poiché le guardie della città, che volevano condurci via, non potevano allontanarsi a causa dell'attacco dei briganti che in quel momento sembrava imminente, comprò della lana, tornò senza di noi da coloro che lo avevano mandato (di cui racconterò più tardi) e annunciò loro il giorno in cui ci avrebbero condotti via, e che le guardie avevano fissato per la festa del Corpus Domini. I nostri benevoli liberatori e protettori - come avevano già fatto due volte prima di allora, così fecero una terza volta - si presero il disturbo di recarsi da Napoli a Teano per noi, il che non mancò di comportare delle spese.
Ján Simonides e Tobiáš Masník
(trad. di Roberta Rocchi)
Fonte: F. Mendozzi, L'inaudito e crudelissimo racconto della prigionia capracottese e della miracolosa liberazione, Youcanprint, Tricase 2018.