Capracotta, dicembre.
I lupi scendono a Capracotta, con la prima neve. Sono magri, affamati: da due mesi non c'è più un gregge, sui pascoli alti. L'odore delle stalle li attira, dopo il tramonto, in paese. È tempo di preparare le cartucce coi pallottoloni grossezza "numero uno". La settimana tra Natale e Capodanno, quando le notti, avvicinandosi la luna piena, si faranno più chiare, sarà propizia per chi voglia prendersi il gusto di fare qualche buona schioppettata, senza affrontare grosse fatiche, senza prender freddo, senza infangarsi. Ci sono due maniere di dare la caccia al lupo (e, dicendo questo, non si tiene conto della trappola, della tagliola, del boccone avvelenato, che sono sistemi ai quali il cacciatore vero non ricorre mai). D'estate si fa la "mena". Si va a cercare il lupo nelle zone più lontane e selvagge della montagna; tre o quattro buoni tiratori si mettono in agguato, nei passaggi obbligati; quindici o venti battitori, con trombe e mortaretti, si dispongono in cerchio nella boscaglia ed avanzano verso il punto dove gli altri attendono, bocconi, col fucile spianato. Il loro compito è di fare il più gran fracasso possibile perché il lupo non tenti di rompere il cerchio che va stringendosi attorno alla tana ma fugga, invece, verso il luogo dove gli è stato teso l'agguato; e non si stenterà a credere che proprio i più paurosi sono, di solito, eccellenti battitori. Durante l'inverno, cioè dalla fine di novembre alla fine di marzo, si fa la posta; ed è molto più comodo. Non c'è da affaticarsi con lunghe marce. Si può stare in pantofole; e, per vincere la noia dell'attesa, c'è sempre la possibilità d'avere una tazza di caffè caldo o un pungo di castagne arrosto; perché la posta la si fa in paese, senza uscire di casa. La caccia al lupo, in questa stagione, non sdegna piccoli conforti: si appoggia il fucile al davanzale della finestra e si tiene un cuscino sotto le ginocchia.
Quando gli armenti abbandonano i pascoli di montagna e vanno a svernare nella pianura pugliese, anche il lupo scende più a valle e si avvicina all'abitato. Per qualche settimana vive nel bosco e non ne esce che molto di rado; ma, con la prima neve, caduta in letargo la maggior parte dei piccoli animali selvatici, la fame lo spinge ad avventurarsi anche tra le case. Soltanto i grandi greggi sono partiti per Minervino o per Lucera; e c'è sempre qualche centinaio di pecore che sverna, al chiuso, in ogni villaggio dell'Abruzzo e dell'Alto Molise. Il lupo tenta, ogni notte, l'assalto alle stalle. Pescasseroli, Barrea, Rivisondoli, Pescopennataro, Alfedena, Pescocostanzo, Vastogirardi sono paesi di lupi; ma più di tutti, forse, è Capracotta. Qui, davvero, non c'è bisogno di passare la notte all'addiaccio per far la posta al lupo. È il lupo che arriva, col buio, e si aggira per le strade. Lo attira l'odore caldo degli ovili. Se non ci sono cani, se c'è una breccia aperta, gli può andar bene: si rifarà, in un quarto d'ora, di molti giorni di digiuno. L'ultima strage fatta entro l'abitato di Capracotta può dare la misura della sua ferocia: un lupo solo, in via Nicola Falcone, a due passi dal municipio, ha sgozzato quindici pecore; poi, entrato in una stalla vicina, ha ucciso e trascinato via una capra. Il pastore Vincenzo Sozio ed i suoi familiari, che abitano proprio sopra la stalla, non hanno sentito nulla. La strage, come sempre, era stata silenziosa. Le pecore belano soltanto in due casi: quando hanno bisogno di sale e quando stanno per partorire. Alla apparizione del lupo battono la zampa a terra, come fa il coniglio impaurito e, se è preclusa ogni via alla fuga, si stringono una contro l'altra, si lasciano scannare in silenzio.
Fatte queste premesse, introdotto il lettore in un paese tra le cui case si aggirano, tutte le notti, i lupi affamati, sarebbe facile continuare il discorso con un tono da storia dell'orco. Forse è proprio quello che ci si aspetta. Ma, anche avendo nelle mani una così seducente materia, la cosa più interessante che si possa raccontare resta sempre la verità. Da Capracotta non può venire nessuna conferma a Cappuccetto Rosso. Che sono questi lupi? Sono grosse bestie di pelo rossiccio (un lupo abruzzese adulto pesa, talvolta, sessanta chili; ed è tutto muscoli ed ossa: non si pensi di trovare sotto la sua pelle una sola noce di grasso). Il lupo ha zanne terribili; e gli occhi, come si legge nella favola, sembrano davvero carboni accesi. È proprio identico a quelli che si vedono nella vecchia stampa popolare della slitta che fugge in una desolata distesa di neve, mentre la famelica torma l'insegue, implacabilmente, sempre più da vicino. Il cocchiere tiene la frusta per la parte più sottile e se ne serve come di un randello, ma già uno dei tre cavalli, azzannato alla gola, s'impenna. Un passeggero, sporgendosi oltre la spalliera, ha fatto fuoco con la grossa pistola; un lupo è caduto riverso, macchiando di rosso la neve; ma un altro ha già spiccaato il balzo e la prima ad essere sbranata sarà la giovane donna che si stringe nella pelliccia. Forse, in Siberia, sarà davvero così. Ma il lupo abruzzese va quasi sempre solo; al massimo in gruppi di due o di tre; ed ha paura dell'uomo. Chi vuole può passeggiare per le strade di Capracotta, con le mani in saccoccia, a qualunque ora della notte. Ad un tratto sentirà un tramestìo, a trenta o quaranta passi di distanza; scorgerà l'ombra di una bestia che galoppa, rasente al muro, verso la campagna. È il lupo che fugge. La fame lo spinge ad avventurarsi tra le case; ma si aggira sempre furtivo, sospettoso, pronto a battersela al primo allarme. Fa come il cane randagio che dai contatti con l'uomo non ha mai cavato nulla di buono, ma solo pedate e sassate; e non aspetta che gli arriviate vicino; non fa distinzione tra il ragazzaccio e voi: scappa prima di essere a tiro.
La posta al lupo è comoda; ma, per la ragione che si è detto più sopra, richiede una lunga, paziente preparazione. Bisogna che il lupo si fermi un momento, se si vuole avere il tempo di mettere a segno una buona fucilata. Sparargli mentre scivola nell'ombra, sospettoso e inquieto, significa sprecare la cartuccia. Allora, si fa a questo modo: si comincia ad adescare il lupo al tempo della luna nuova, quando la notte è perfettamente buia; ogni sera si mette un grosso pezzo di carne o un intero animale in un punto scoperto, a una ventina di metri dalla finestra alla quale, al momento opportuno, si starà appostati. All'alba si va a vedere; e, le prime volte, si troverà l'esca appena mordicchiata: il lupo ha fiutato l'insidia; si è avvicinato diverse volte; ha dato un morso ed è scappato via. In seguito, a poco a poco, si rinfrancherà e farà un pasto più abbondante; se si dovrà rinnovare l'esca, pazienza; ma si dovrà insistere per dieci o dodici giorni. Verso il decimo giorno di luna si potrà scorgere il lupo a due o trecento metri, in modo d'avere il tempo di prepararsi. È il momento buono. I sei o sette cacciatori si assegnano i turni a sorte. La veglia potrà durare dalle diciannove alle tre del mattino, ma il turno migliore è quello che va dalle ventuna alle ventuna e trenta perché, ritiratosi l'ultimo sonnambulo, Capracotta a quell'ora diventa deserta. Tolto un vetro a una finestra del primo piano, un cacciatore si mette in agguato. Gli altri aspettano al pianterreno, attorno al bracere. Fanno cuocere le castagne nella cenere calda; mettono a rosolare le salsicce. Un lume ad olio rischiara debolmente la scena; e sono state tappate con cura tutte le fessure della porta: guai, se trapelasse soltanto un filo di luce. Si intendono a gesti: il minimo rumore potrebbe compromettere ogni cosa. Questa è la posta al lupo, che i trattatisti considerano caccia grossa. È una lunga, monotona veglia che si concluderà con un'unica schioppettata. Ma a qualcuno certamente toccherà di sparare quella cartuccia, perché non si dà mai il caso che il lupo manchi all'appuntamento. Lo si vede apparire, furtivo, all'angolo della strada. Eccolo che si ferma a tiro, sopra l'esca. Uno starnuto basterebbe a farlo scappare come una lepre. Il cacciatore è appostato a una finestra del primo piano, e nemmeno una tigre divoratrice d'uomini dovrebbe fargli paura. Eppure, anche il buon tiratore talvolta si impressiona e sbaglia colpo.
Quanti potranno essere i lupi che vivono su queste montagne? Non è facile fare il computo, perché il lupo, a differenza dell'orso, non ha mai una tana fissa e si sposta con facilità da una zona all'altra, percorrendo decine di chilometri in poche ore. Nell'Abruzzo e nell'Alto Molise ne devono esistere, comunque, parecchie centinaia. Sono vili, di fronte all'uomo; sanguinari e crudeli con gli animali che aggrediscono. Il lupo che riesce a superare le reti di uno stazzo o a penetrare in un ovile compie sempre una strage inutile; azzanna alla gola tutte le bestie che può; l'odore del sangue lo ubriaca, esaspera la sua ferocia. È una scena spaventosa che dura pochi minuti. Lascia a terra, sgozzate, quindici o venti pecore; ne porta via una sola, viva, per divorarsela in pace. L'afferra piantandole i denti nella collottola, la costringe a camminargli a lato, fianco contro fianco; e continuamente la sferza con la coda. È un fatto accertato centinaia di volte; e qualcuno ha creduto di escludere che il lupo, incitando a sferzate la sua vittima, compia un atto volontario e intelligente; si tratterebbe soltanto di un movimento riflesso, dovuto allo sforzo ed alla posizione del collo piegato, appunto, da quella parte. Ma i pastori dicono di no. Sono colpi duri; e il lupo picchia con maggiore violenza quando la pecora si impunta, o vuole che prenda la rincorsa ad un passaggio più difficile.
È temuto da tutte le bestie, tranne che dall'orso e dal cane da pastore. Ma il cane da pastore non lo può vincere, e lo sa. Il suo compito è di ingaggiare battaglia, di tenere a bada il lupo perché non si avventi subito contro il gregge, di dar tempo agli uomini di accorrere. Sono zuffe furibonde: spesso ne resta vittima il cane; il lupo mai. Tanto è vero che, tra i pastori di Capracotta, si è tramandata come un fatto straordinario la storia di un mastino che, arrivato nello stazzo quando la strage era già cominciata, affrontò il lupo e lo uccise; poi accumulò sul corpo del vinto le venti pecore ch'erano state sgozzate e salì sulla catasta aspettando, trionfante, l'arrivo del padrone. Ritenuto autore della carneficina fu, invece, freddato con una schioppettata a bruciapelo. È uno dei tanti, ingenui racconti dei pastori abruzzesi. Ma è una leggenda. E certamente è leggenda anche la storia del toro che combatté col lupo e l'uccise. La carogna restò infilzata nelle lunghe corna e il toro non permise che alcuno si avvicinasse per levarla. La mandria scendeva a svernare nella pianura pugliese. Camminò cinque giorni, attraversò paesi e città, sempre con quel trofeo. La gente accorreva sbalordita. Arrivò a Canosa. Il corpo del lupo, ormai gonfio e semiputrefatto, cadde da solo; e finalmente il toro chinò la testa: non aveva bevuto né brucato un filo di erba, dal giorno della battaglia.
Anche la storia del soldato sbranato, che ebbe credito alcune settimane fa su qualche giornale, è pura favola. A Vastogirardi ci fu, tuttavia, un caso tragico, l'estate scorsa. Un lupo idrofobo addentò quattro persone che morirono tutte, per il contagio. Era un vecchio lupo, tra i più grossi che si erano visti su queste montagne, ed aveva cicatrici in quasi ogni parte del corpo. Forse era stato, a sua volta, infettato da un cane. Fu visto aggirarsi nelle campagne di Capracotta, di pieno giorno. Si capì subito ch'era idrofobo e gli si diede la caccia, ma senza successo. A Vastogirardi, l'ultimo che aggredì fu un contadino intento ad arare il campo. L'uomo, non avendo via di scampo, sfilò il timone dell'aratro ed affrontò risolutamente la lotta. Fu una scena tremenda che durò parecchi minuti; ma, alla fine il lupo, colpito alla nuca da una violenta randellata, cadde a terra, morto. Il contadino si credette salvo. Era stato addentato ad una coscia e ad un braccio, ma le lacerazioni erano superficiali. Giudicò di potersele curare da solo e, quando lo portarono all'ospedale, il contagio aveva fatto troppa strada perché lo potessero salvare.
Tommaso Besozzi
Fonte: T. Besozzi, In Italia la caccia al lupo si fa dalla finestra: il tempo di ucciderlo è la decima notte di luna, dalle nove alle nove e mezzo, in «L'Europeo», VI:1, Milano, 1 gennaio 1950.