top of page

La campagna, i monti, i boschi


Guardata Capracotta
Panorama di Capracotta dalla Guardata.

La Guardata

Di primo mattino, quando il sole comincia ad indorarla, la Guardata appare in tutta la sua rude e semplice bellezza.

Al centro, dalle pendici di Monte Campo fino al fu Tirassegno nuovo, sotto al campo sportivo, la zona dei macigni, i "cantoni", staccatisi dal monte e precipitati a valle in chi sa quale remota epoca geologica. La loro ombra, alla luce radente del sole del mattino, si proietta bruna sui rovi e sulle erbe. A sinistra la grande macchia di pruni, cespugli, arbusti. A destra la verde distesa, con pochi arbusti e molti cardi, adatta ai pascoli, tutta a groppe, a valloncelli, le cui prode a maggio si ricoprono di cespi di primule, di viole, di ranuncoli.

La Guardata d'inverno per i ragazzi di San Giovanni s'identificava con il Colle Liscio, una grande groppa rasa, sotto al serbatoio, dove essi convenivano nelle ore pomeridiane per farsi quattro sciate con quei loro sci arrangiati.

Si facevano le ossa. Quando il tempo era a scirocco, battevano la pista uno a fianco all'altro, con gli sci a spina di pesce.

A primavera se ne andavano al Lago della Vecchia, un minuscolo stagno, sopra a Colle Liscio. Si contentavano di ascoltare, stesi sull'erba, il monotono gracidìo delle rane e quando queste non ne volevano sapere, giocavano a rimbalzello.

Per la festa del Corpus Domini, le ragazze sfarfallavano per la guardata in cerca di fiori.

Sui cigli dei fossi e lungo i sentieri erbosi era tutto uno sfarzo di colori e un sentore di profumi: primule, campanule, viole, mammole, margherite. La Guardata risuonava di grida gioiose. Le ragazze più grandi se ne andavano con Lucia di Milione sopra alla Vacchereccia in cerca di timo, menta, lavanda ed altre piante aromatiche, da buttare per le vie del paese, insieme ai fiori, davanti alla processione.

Nei lunghi pomeriggi d'estate la Guardata era tutta un tripudio di luce calda e intensa. I ragazzi battevano accaldati i vecchi sentieri pieni di ciottoli, che si inerpicavano in mezzo ai cespugli ricoperti di ragnatele argentee e bozzoli d’insetti. Il silenzio pomeridiano era rotto dal ronzio sordo degli insetti, dal trillo di qualche fringuello e dallo scampanio delle mandre lontane, al pascolo.

Oggetto delle escursioni, oltre naturalmente il girovagare fine a se stesso proprio dei ragazzi, era la ricerca dei "ravascini".

Da lontano si distinguevano i caratteristici rovi con le foglie verde chiaro dai lobi frastagliati, sui quali occhieggiavano, color giallo arancione, le ricercate bacche.

Al rientro era d'obbligo una sosta alla Fonte Bricciaia, la fonte per eccellenza, quella che racchiudeva in sé tutte le nascoste bellezze delle sorgive di campagna. Il chioccolìo lieve dell'acqua ne annunciava la presenza. I cercatori, madidi di sudore, affrettavano il passo gareggiando a chi arrivasse prima.

I ravascini erano messi al bagno non tanto per nettarli della polvere, quanto per avere il piacere ai degustarli freschi, bagnati.

Altra sosta obbligata un po' più giù, al "Cantone grosso", il maggiore dei macigni della Guardata e il più familiare.

Andare sul Cantone, comportava una piccola arrampicata dalla parte superiore, quella più accessibile, e una scalata più impegnativa dalla parte inferiore. Tutti però ci tenevano a salire sopra per godersi da lassù il panorama; sdraiati in un piccolo anfratto della roccia, a forma di cuna.

 

Escursione a Monte Campo

Assistere d'estate alla levata del sole da Monte Campo era un appuntamento esaltante, a cui nessuno voleva rinunciare.

Si parte di buon'ora. La giornata si annuncia buona. È ancora buio, ma è piacevole camminare, mentre il paese dorme, all'aria frizzante della notte che cade.

La comitiva giunge sulla schiena del monte mentre albeggia. Nel chiarore ancora incerto si procede verso la cima con circospezione per non infilare i piedi nelle fenditure intorno ai grossi lastroni di roccia, bucherellati come enormi spugne, dall'aspetto così caratteristico e inconsueto. Le cime dei faggi sussurrano lievemente al soffio dei venti antelucani, che mettono qualche brivido addosso.

Giunti sulla cima, presso la Croce, in attesa che il sole sorga, si va alla ricerca di un anfratto nella roccia, che faccia da riparo al soffio pungente del vento.

Passa una buona mezz'ora.

L'orizzonte ad oriente si tinge di rosa. Lunghe e sottili strisce di nuvole basse cominciano a colorarsi, si incendiano. Poi, dal punto dove sta per sorgere il sole si apre a ventaglio nel cielo una fantasmagorica raggiera color dell'aurora, e, finalmente, dalla linea netta e pura del mare lontano, spunta un segmento purpureo del disco solare.

Man mano che il disco ingrandisce, i toni rosso brace si attenuano e i raggi si fondono nella luce, ora dorata, del cielo del mattino. Il vento cessa; l'aria comincia a riscaldarsi. Uno sguardo all'intorno, prima di proseguire. Ampio e maestoso il panorama. Intorno inintorno, in una gamma di colori dal grigio al ceruleo, al bruno, al viola, monti e monti, dal profilo ben stagliato nello smalto dell'azzurro. Qua e là nelle vallate e sui monti stessi, paesi e casolari sparsi. Più vicino, il verde cupo delle abetaie e quello chiaro delle faggete.

Un silenzio profondo avvolge le cose.

Non c'è nei dintorni del paese un altro posto che susciti sensazioni forti e esaltanti come questo. Nel contatto con una realtà ancora integra che non ha subito oltraggi da parte dell’uomo e che conserva, ben visibili, le impronte delle antiche stagioni, pare veramente di ritornare alle origini. Il sentimento della natura primigenia raffiora da chi sa quali ancestrali profondità della coscienza.

Si parte. Si scende dal versante opposto. Ci sono delle pareti rocciose, a picco, che devono essere discese con grande prudenza.

Giù uno alla volta. Tutto procede bene: neppure un graffio. Ma per il binocolo di Papàcienzo, prestato con mille raccomandazioni, è suonata l'ora. Lo zaino, in cui esso è contenuto, è d'impiccio per la discesa, per cui si pensa di passarlo, a volo, al primo della comitiva, che è già sceso.

Butta giù lo zaino: lo prendo io...!

C'è dentro il binocolo! Attento!

Dai, butta...!

Lo zaino viene lanciato e finisce su uno spigolo della roccia.

Il binocolo di Papàcienzo conchiude così, miseramente e immaturamente, la sua lunga carriera di dispensatore di splendide visioni, non soltanto paesaggistiche. Si scende di roccia in roccia a lume di naso, con l'animo teso.

Poi, quando l'ultimo ostacolo è superato e s'intravede il pendio boscoso, un respiro di sollievo da parte di tutti. Ora c'è la ripida china, che viene percorsa a scivolo, su uno strato di foglie secche, sorreggendosi ai rami degli alberi per frenare l'accelerazione.

Finalmente giù.

Ecco la Fonte Carovilli tra i vecchi faggi e il tappeto erboso, umido e fresco. Lunga sosta per la colazione.

 

Prato Gentile

Si va a Prato Gentile per il comodo sentiero ombroso. All'uscita ci si trova davanti al vasto pianoro erboso, quasi circolare, inondato dal sole. Dalla cima del Campo sembrava poco più che un fazzoletto. L'erba di un verde brillante, macchiata del giallo dei ranuncoli, ondeggia al soffio del vento.

Silenzio e solitudine intorno. Si ode solo il gorgheggio delle cince tra i faggi.

In quelle stagioni vi passavano solo i boscaioli, quando c'era il taglio, le donne che andavano per fascine e, naturalmente, Lucia di Milione quando andava per funghi.

Mentre cammini nell'erba soffice, t’imbevi d’aria pura e di sole.

Anche qui, come a Monte Campo, ti senti vicino a madre natura: ne avverti i palpiti segreti e ti senti immerso nella gran pace che da essa promana.

 

Monte Capraro

Antonino Ianiro, l'animatore delle gite antelucane di Monte Campo, che veniva a svegliarti alle tre di notte, cosa direbbe se si tacesse di quelle, non così mattiniere ma pur sempre esaltanti di Monte Capraro, il monte che sta dalla sua parte?

Spostiamoci perciò a ponente, a Monte Capraro appunto.

Monte Capraro, più familiarmente il Monte, fa in un certo senso da contrappunto alla rude bellezza di Monte Campo. Qui le linee sono più distese, più morbide; il profilo del Monte si staglia nel cielo con contorni nitidi, rasi, se così si può dire.

Le scabrosità rocciose, numerose anche qui, scompaiono nel folto della vegetazione. Salendo dallo scalo ferroviario, si nota come il Monte affondi le sue propaggini nella valle del Sangro e assuma perciò un aspetto ancora più imponente.

Negli anni ricordati, "Sotto al Monte" era la meta preferita delle gite, che altrove chiamerebbero "fuori porta". Passeggiate domenicali, a cui partecipavano gruppi familiari e comitive di giovani e ragazzi.

Un’espressione, "Sotto al Monte", ricca di senso affettivo, che era penetrata dentro, nella propria in pogteriorità, più significante di altre, come, ad esempio, quella, pure così familiare, di "In cima al Campo": ciò perché forse di sapore più intrinseco.

Eccoci al bivio, l'"Innesto". Dopo tre o quattro svolte siamo sotto al Monte.

Allora la vecchia fontana di pietra ti veniva incontro, mormorando sommessamente, pronta ad offrirti un sorso d'acqua fresca.

Le comitive si attestavano sotto ai faggi, che facevano corona alla fonte, sopra alla strada, e spandevano le loro salviette, sulle quali spiccava appetitosa, dorata, ancora tiepida, la frittata, piatto principale e difficilmente sostituibile, stanti i tempi. L'eco delle allegre risate risuonava nel bosco.

Qualche gruppo si addentrava fino alla Fonte della Staccia, qualche altro andava in cerca, non sempre con esito positivo, della Fonte Nascosta.

 

La Piana

Dall'Innesto parte una mulattiera che s'inerpica verso la sommità del Monte, costeggiando a destra il bosco e lasciandosi a sinistra il declivio erboso dell'"Addiaccio della Vorraina", l'altra grande distesa a pascolo, dopo la Guardata.

La via, al margine superiore della radura, si inoltra nella foresta, s'impenna per un buon tratto e perviene ad uno slargo ondulato, la piccola "Piana". Qui c'era una vena d'acqua, raccolta fra tre pietre grigie, che Antonino si ostinava a chiamare la Fonte della Piana. Il sentiero si ramifica. Il ramo centrale, che scompare a tratti sotto una spessa coltre di foglie secche, snodandosi agevolmente tra i grandi faggi, porta ad una vasta radura in lieve pendenza. È la Piana del Monte.

Le fanno cerchia, da tre lati, grossi picchi rocciosi. Alcuni di essi, i più imponenti, sul lato sinistro, un po' sotto alla cima, sembrano torrioni e con tale nome vengono chiamati. Grosse striature grigio arancione conferiscono loro l'aspetto ancor più ragguardevole.

I rami lunghi e frondosi dei faggi stormiscono lievemente intorno intorno.

Fra le rocce spuntano le pianticine verde chiaro dei lamponi, i cui frutti color granata ridono da sotto alle foglie, ammiccando.

Il luogo è assai pittoresco. Una grande quiete regna sulle cose. Il panorama che si domina dalla sommità dei torrioni è, sotto certi aspetti, ancora più spettacolare di quello che si gode dalla croce del Campo. Sullo sfondo, a sudovest, si stagliano, grigio cerulee, le Mainarde. Più a occidente si levano i Monti della Meta, in una tonalità di colori che vanno dal verde scuro dei fianchi al cenere, al bianco delle rocce, su verso le cime, che sembrano nevai: danno l'idea di un grande tendaggio sospeso.

Giù nella valle c'è Monte Miglio, come un grosso felino accovacciato, e la verde distesa della foresta di Montedimezzo.

Ripercorriamo il sentiero a ritroso. Alla piccola Piana, deviamo seguendo la traccia che mena al "Calaturo dei buoi", l'antico passaggio degli armenti all'abbeverata. Scende sopra alle Fonticelle, percorrendo una gola ombrosa e pittoresca e sporgendosi in qualche tratto su alti dirupi rocciosi.

 

La Crocetta

Raggiungiamo la Crocetta. È un'altra bella radura piena di verde, a selletta, a cavallo dei due versanti, di cui l'uno, quello occidentale, si sporge sul bosco dell'Ospedaletto.

Qui, presso la Croce, un anziano pastore, mentre pascolava il gregge col figlio giovinetto, fu assalito dal lupo, che gli si avventò addosso, addentandogli il naso.

Il pastore, svelto, ficcò il gomito nelle fauci della belva per immobilizzargli le mandibole, mentre il figlio, incitato dal padre («Mena, tata, mena»), lo colpiva a randellate, stordendolo, fino e fargli mollare la presa e a metterlo in fuga.

Da questo punto si potrebbe andare all'acquasantiera, su all'eremo di San Giovanni, costeggiando la cresta del Monte, percorso arduo ma breve, oppure seguendo il sentiero nel bosco, le cui tracce però si sono pressoché dileguate. L'escursione è rimandata ad una prossima volta, anche perché si sta facendo tardi.

 
Vallesorda Capracota
Panorama di Capracotta da Vallesorda.

Vallesorda

Preferiamo fare un salto alle mura ciclopiche, a poca distanza. Un comodo sentiero porta alla cima di Vallesorda, dove è l'antica cerchia muraria.

Grossi blocchi di pietra, collocati a secco l'uno sull'altro, costituiscono il grande recinto, a mezzo del quale si intravedono i resti dell'antica porta.

A cosa realmente servisse è solo ipotizzabile: a recinto dei cavalli, come il nome di Cavallerizza fa supporre? O, a che altro?

Un senso di mistero avvolge le cose e ti penetra dentro.

 

Sopra a Monteforte

Rieccoci alla Crocetta. Mentre si scende verso il versante opposto, si ammira un altro splendido panorama, assai vario e suggestivo. All'orizzonte, intorno intorno, catene di monti grigio-azzurri, tra i quali spicca, per la mole imponente, il massiccio del Matese. Più in dentro, altri monti, in cerchie digradanti, dai colori sfumati; ampie vallate verde chiaro, e poggi, molti poggi, alcuni boscosi, altri ricoperti da un manto erboso con pochi arbusti, simili a macchie: dall'alto sembrano enormi groppe.

Si scende fin sopra ad una vasta spianata smaltata di verde più intenso: è il Prato di Monteforte.

Guardando su, verso la cima di Vallesorda, si scorge una muraglia di grossi macigni, proprio sotto ai faggi, che forse costituiva il naturale prolungamento dell'antica cerchia muraria di Cavallerizza.

Dietro un poggio scabro spunta un vecchio capanno, tutte di lastre di pietra murate a secco, con il tetto conico e un'apertura come uscio. È un rifugio di mandriani, che da tempo immemorabile conducono gli armenti fin quassù nei freschi e ricchi pascoli sopra a Monteforte.

Attraverso un vecchio sentiero, le cui tracce tendono a dileguarsi, in parte costeggiante il declivio del Monte e in parte inoltrantesi nel bosco sottostante, si perviene ad una delle sorgenti più nascoste e più suggestive: la Fonte dell'Orso.

Lunga sosta e poi ritorno sui propri passi, fin sulla Selletta.

Si scende. Ci si ferma un momento alla fonte di Vallesorda, poco sotto al Coppo della Madonna.

Si attraversa la strada e si sosta alla Fonte del Bacile, una polla sorgiva le cui acque si raccolgono in una piccola conca a forma di catino, dove oggi nessuno più si ferma, ma che allora era una delle mete preferite per le scampagnate, quelle vere.

 

Fonticelle, addio!

Sulla via del ritorno, sosta alle Fonticelle.

Le Fonticelle! Così care ai ragazzi di Sant'Antonio, che ne vantavano la bellezza, dicendo ai sangiovannari: «Vù tenéte la fonte Vrecciàra e nu tenéme le Funtecélle!».

Vi venivano i ragazzi in cerca di ravascini, i cui rovi si nascondevano fra le altre piante, sopra alla fonte, andando su verso il bosco. I ragazzi, prima di rientrare, sostavano, seduti sulla spalletta della fonte, in faccia al paese, a lungo trastullandosi con l'acqua.

Era la fonte che con il suo chioccolìo sommesso dava il benvenuto a coloro che rientravano in paese, venendo da Staffoli; cara a tutti, perciò.

Dove sono ora le Fonticelle?

Per far largo alla strada, la fontana si è tirata doverosamente indietro, si e fatta umilmente da parte.

Là dove oggi si trova, in fondo allo slargo, sulla destra, in disparte, come un nobile decaduto dall'aria dimessa e malinconica, muta, non dice proprio più niente a nessuno.


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

bottom of page