Il rione della Chiesa non si riconosce quasi più da come era una volta, prima della ricostruzione.
Era il nucleo originario del paese, chiamato la "Terra Vecchia", delimitato da una parte dalla torre e dall'altra dalla chiesa stessa. Un agglomerato di casupole, con i tetti ricoperti dalle lisce, strette l'una all'altra come per sostenersi, da buone sorelle, nella buona e nell'avversa sorte.
Quelle soprastanti si elevavano a strapiombo sul dirupo roccioso, i "Ritagli", ed erano, come punte avanzate di uno schieramento, le più esposte ai rigori dell'inverno.
Andavano dal campanile, presso il quale c'era il negozio di zi Lollo Carbone e la bottega dell'orologiaio, fino alla farmacia di don Filiberto.
Esse facevano da riparo alle altre più in dentro ed anche al piccolo spiazzo in pendenza di fianco alla Chiesa.
Correvano tra la prima e le altre file di case due anguste viuzze, via San Sebastiano e via Carfagna, dove la neve d'inverno rimaneva a lungo ghiacciata, anche fino ad aprile, se non veniva rimossa a colpi di piccone. Quando rugghiava la tormenta, pareva che le povere case rabbrividissero anch'esse come i loro occupanti. Fortuna che avessero a baluardo e protezione la torre e la chiesa!
La torre la ritroveremo più avanti, almeno in effige. La chiesa è lì con la sua bella facciata barocca di pietra bianca del Monte, a cui il tempo ha donato una lieve patina color ambra chiara.
In quegli anni lontani sopra alla Chiesa c'era tanta gente.
La spina del piccolo borgo era la via Carfagna. Essa, partendo dalla torre, saliva in leggero pendio fino alla chiesa.
Lì, nelle giornate di sole, sferruzzavano le vecchiette, sedute sulla soglia di casa; ai loro piedi c'era sempre un folto gruppo di marmocchi, indaffarati nei loro trastulli.
Uscivano dal forno di Gaetano il fornaio le donne coi canestri pieni di grossi pani freschi, che spandevano all’intorno il loro fragrante profumo. Nelle occasioni, Gaetano sfornava pizze di pandispagna, taralli, ciambelle e allora i bambocci si appostavano lì davanti, sgranando gli occhi e dilatando le narici.
Giù per la scalinata di San Vincenzo aveva il suo povero abituro Antonino di Rucchètte. Lui e la moglie la sera, appena l'imbrunire, spegnevano per risparmio il fuoco del camino e si rintanavano nel letto, al buio, non potendo permettersi il lusso della luce elettrica. La mattina presto se ne andavano al lavoro, in campagna.
Pappascióne
Pappascióne scendeva dalla sua stamberga sopra alla Chiesa, vicino a Tore il calzolaio, col volto atteggiato ad un eterno sorriso e i due grossi denti superiori sporgenti, armato di ramazza. Procedeva piano, masticando un tozzo di pane.
Arrivato giù sulla strada, cominciava a ramazzare, muovendosi a piccoli passi e dimenandosi sui fianchi per via di quei suoi poveri piedi deformi.
Spazzava con zelo, caricava la carretta, lasciava la ramazza per accorrere alla chiamata della guardia municipale.
Laborioso, di animo semplice e buono, Pappascióne non si rifiutava mai, se qualcuno gli richiedeva qualche lavoro fuori servizio. La mercede? Un bicchiere: tutto lì. E sul volto sempre quel suo sorriso beato, un po' incantato, da uomo semplice e buono.
Lucia di Milione
Da via Carfagna scendiamo alla "Rufa di Milione".
Qui troviamo Lucia con la mamma Marosa e la sorella Irene.
La loro casa consisteva in un povero cucinino con le pareti annerite dal fumo e un paio di stanzette col soffitto e il pavimento a travature di legno con quattro tavole inchiodate sopra, sempre traballanti. Irene aveva adibito a sala - così diceva lei - una delle camere, quella del fratello Fiore e del nipotino Emilio, che avevano lasciato tragicamente la vita fra i peri e i carpini fasciati d'edera della Difesa.
Nelle giornate d'inverno - così lunghe per lei - mentre Irene accudiva alle faccende di casa, Lucia, se non era in chiesa alle funzioni o in casa dei vicini, se ne stava accanto al fuoco, mezza imbarbogita. Ai lavori domestici era riluttante, perché essa non era fatta per la casa. Il suo ambiente, il suo humus, per così dire, era la campagna. Alle prime avvisaglie della primavera non la trattenevi più. Si preparava e correva a fare un sopralluogo. Esplorato il terreno, cominciava le sortite quotidiane in cerca delle primizie che la campagna, ormai risorta, le poteva offrire. Si metteva un pezzo di pane, quando c'era, nel fazzolettone e se ne andava.
Pasqualino il fornaio spesso la vedeva passare di buon'ora e quando s'accorgeva che Lucia era a secco, le faceva segno di entrare. Come per una tacita intesa, essa prendeva il fazzolettone per una cocca e lo scrollava. Sorridendo Pasqualino provvedeva. E Lucia andava.
Veniva prima il turno delle cicorie e delle casselle dal sapore forte e amarognolo, poi dei teneri boccarossi, dei tanni, dei cicorioni; più tardi c'erano le fragole, i lamponi, i funghi, specialmente i funghi. Conosceva tutte le fungaie degne di questo nome, e tutte le specialità. I preferiti erano i prataioli con il loro cappello bianco lucente e le lamelle marrone, che sapevano di sole, di aria, di prati verdi.
Un giorno la incontravano sopra alla Piana del Monte, un altro giorno alle Matasse Nere, un altro alla Valrapina in cerca di fiori di camomilla e di malvone.
A sera tornava stanca ma con un'aria di contentezza diffusa sul volto abbronzato, e andava nelle case ad offrire, per qualche soldo o per qualche cosa in natura, le sue raccolte del giorno.
Quando l'amica natura, stanca di donare a Lucia di Milione le sue cose, si preparava al sonno invernale, l'infaticabile cercatrice le strappava, tra sbuffi di vento e scrosci di pioggia, rametti di agrifoglio e di vischio per il presepio dei bimbi.
Una mattina Lucia, Irene e Marosa se ne andarono per ceppe su a Monte Campo. Nel fazzolettone non c'era niente perché la madia era vuota. Fecero il loro bel fascio, se lo misero sul capo e presero a scendere. Lucia si lamentava per i crampi allo stomaco. Giù a Santa Lucia, buttò il fascio e sconfinò nel primo terreno coltivato a patate, a portata di... piedi, e ne fece una grembiulata. Appena a casa, lessarono le patate e le mangiarono; uno stimolo per l'appetito di Lucia, che riprese a lamentarsi.
– Roba rubata non ha mai saziato – esclamò allora Marosa e, preso lo scialle, corse dai proprietari del campo invaso. – Sono venuta a confessarmi – disse e raccontò tutto e finalmente si sentì l'anima leggera. Quelli, gran brava gente, si dettero pena e vollero che Marosa accettasse del pane e le dissero che se ripassavano vicino al loro terreno, potevano cogliersi, senza complimenti, le patate che volevano.
Venne anche per Lucia di Milione la stagione del riposo. Stanca, piena di acciacchi, seduta accanto al grande camino, nero di dentro e di fuori, sognava le verdi radure dietro alla Selletta, i lamponi rosso-vino sopra alle Macerie, le fungaie delle Coste della Cerreta, ricche di prataioli.
Paganini
Paganini abitava sopra a San Vincenzo, nella piazzetta che allora portava il nome di Calzella Carfagna, il generale di origine capracottese, che, come ricorda don Luigi nel suo libro, partecipò nel 1529, come capitano generale dell'artiglieria imperiale di Carlo V, all'assedio di Firenze e di Volterra, ove perse la vita.
La casa di Costantino Giuliano si distingueva un po' dalle altre della Chiesa per il discreto fastigio che le derivava dall’essere stata una casa di benestanti, forse di nobili.
A pianterreno c'era un piccolo negozio di alimentari dove trovavi comare Gemma, affabile e premurosa.
Al piano superiore, la sala aveva l'aspetto di un piccolo laboratorio. Attrezzi da lavoro e aggeggi vari un po' dappertutto.
Paganini era in un certo senso il factotum del paese. Addetto al servizio idrico e al sevizio meteorologico, si intendeva di tutto: di elettricità, di orologeria, di rubinetteria, perfino di auto. Non si tirava mai indietro, sempre pronto ad intervenire per prestare la sua opera, spesso gratuita.
Si faceva benvolere da tutti per il tratto onesto, cordiale, signorile.
Nei pomeriggi invernali scendeva dagli amici e dai compari della via Nuova e si tratteneva conversando amabilmente fino a tarda sera, centellinando un bicchiere di vino, che egli posava, tra un sorso e l'altro, sulla mensola del camino. Le ore volavano con compa' Costantino, narratore facondo e avvincente.
Anche per questo vive nel ricordo e nel cuore di tutti.
I sacrestani
Dietro all'arco di Mercallò abitava Cianuccio il sacrestano, che dominava incontrastato in tutto il settore della chiesa. Faceva anche il calzolaio in un localuccio rimediato in casa del suocero, il vecchio sacrestano.
Svelto, attivo, lo vedevi correre qua e là, sempre indaffarato, dalla sacrestia al coro, all'altare, ai banchi. Faceva di corsa persino la questua. Accorreva, solerte, ad ogni chiamata. Redarguiva i ragazzi ciarlieri e zittiva pure, con garbo, ma con fermezza, le donne petulanti.
Quando era cattivo tempo, Cianuccio correva dall'Arciprete per accompagnarlo in Chiesa. Lo vedevi mentre lo sorreggeva, premuroso, lungo la scalinata sconnessa, ricoperta di ghiaccio, che menava su al sagrato.
Quando se ne andò, lasciò un gran vuoto.
Prese il suo posto Giustino, che faceva il decoratore.
Fra un'attività e l'altra, Giustino, quando possibile, correva a farsi una partita a tressette, gioco in cui era ritenuto, e a ragione, un maestro. Se capitava, si faceva anche un bicchiere in compagnia, e cantava allora vecchie canzoni paesane con voce calda e accorata. Cantava anche in chiesa alla messa cantata, su all'organo, e
all'Ufficio, quando le mansioni di sacrista glielo consentivano.
Sempre pieno di garbo con tutti, si moveva tra le navate, silenzioso, discreto, a passi felpati.
Domenica delle Palme
I ragazzi si recano alla prima messa per presenziare alla benedizione delle palme. Aspettano fuori, sul sagrato, la distribuzione, vociando.
Il sacrestano esce dalla chiesa con un gran fascio di ramoscelli d'olivo sotto il braccio e, agile, salta sulla base del pilastro, a destra della scalinata, per fare le cose a modo.
La frotta chiassosa fa ressa intorno a lui. Tutti tendono le mani: «A me, Cianù, a me!»...
Comincia la distribuzione, ma, ad un certo punto, quando il trambusto raggiunge il colmo, Cianuccio, persa le pazienza, impugna rapidamente una manciata di rami e cala colpi su colpi su chi capita capita.
La gragnuola fa effetto.
Ad acque calmate, riprende la distribuzione e tutti, pienamente soddisfatti, entrano in chiesa con le palme in mano per partecipare al rito della benedizione.
Dopo la chiesa, i ragazzi corrono dai parenti e dagli amici di famiglia ad offrire generosamente il segno della pace, nella speranza, s’intende, che qualcuno di essi metta mano, con altrettanta generosità, al portazecchini.
La Settimana Santa
Il pomeriggio di mercoledì santo cominciava la scurdla.
Per l'occasione tutti i ragazzi tiravano fuori i vecchi arnesi del fracasso: tic-tac, ranocchie, frarelli; si spendevano dai piuoli le cuccirelle, le regine dello schiamazzo.
Nei giorni precedenti si facevano i preparativi e si affilavano, per così dire, i ferri del mestiere, e per tutte le strade era un continuo ticchettio di tic-tac, gracidare di ranocchie, gracchiare di frarelli.
I ragazzi che ne erano sprovvisti correvano a scapicollo sotto a zi Vincenzo, papà
Ciénze per tutti i bambini, per chiedergli, a nome delle mamme, i più piccoli una tic-tac, i più grandi una ranocchia; il frarello non era pane per i loro denti.
E papà Ciénze, sempre di manica larga con i bambini, a nessuno negava una tic-tac; per la ranocchia, la cosa era meno facile perché per farla ci voleva tempo, ma non rimandava indietro nessuno con il muso lungo.
L'atteso pomeriggio tutti davanti al sagrato a fare le prove.
Cianuccio doveva fare buon viso questa volta. L'eco del frastuono arrivava in piazza e sinanche sopra al Colle.
Poi la funzione cominciava e, al momento giusto, quando l'Arciprete dava il segnale, battendo tre colpi di pertica sul tappeto, davanti all'altare, scoppiava fragorosa, assordante, irrefrenabile, la scurdla.
Anche le bambine facevano la loro parte con mazzetti di chiavi che facevano tintinnare velocemente.
Le donne si turavano le orecchie e Cianuccio cercava di frenare l'impeto dei più scalmanati, allungando pure qualche scappellotto: quando ci voleva, ci voleva!
Il rito, che probabilmente derivava dalle antiche sacre rappresentazioni e che voleva rievocare quel momento della Passione, quando Cristo fu legato alla colonna, insultato e percosso, si ripeteva tutti i pomeriggi fino al sabato santo.
Il giovedì santo, a mezzogiorno, si legavano le campane in segno di lutto e da quel momento fino alla Gloria giravano per il paese le cuccirelle per dare gli avvisi sacri, ed ogni bambino, sentendole strepire per le vie, sognava di essere prescelto da Cianuccio il sacrestano per entrare a far parte del manipolo dei cuccirellari. Il sabato, al momento della Gloria, quando si scopriva il lenzuolo sull'altare e compariva Cristo risorto, la scurdla si ripeteva per l'ultima volta con rinnovato fragore.
Mentre lo strepitio smoriva, si levava, alto e solenne, tra gli allunghi di zi Vincenzo l'organista, il canto della Resurrezione, accompagnato dall'organo aperto a tutto registro.
Le note dell'inno calavano di tono e scendevano dolci e suadenti nell'animo, che si sentiva pervaso da quell'inesprimibile senso di pace che il mistero pasquale emanava.
L'Ufficio domenicale
La domenica, alla prima messa, si cantava l'Ufficio della Madonna.
Ricordiamo. È una domenica d'inverno, con la neve.
Il sacrestano ben presto, con l'aiuto di un ragazzo della Chiesa, prepara i grandi bracieri e accende la carbonella, che mette poi a sfocare sul sagrato.
Alle otto cominciano ad arrivare i cantori, confratelli della Congregazione, avvolti nei grandi cappotti a ruota col colletto di astrakan, e siedono attorno ai due bracieri, chi di qua chi di là, a seconda del posto occupato nei cori.
In attesa dell'inizio dell'Ufficio, si scambiano qualche parola sul tempo. Qualcuno prende la paletta in mano e assesta la carbonella, coprendola torno torno con la cenere calda e cercando, anche per una inconscia esigenza estetica, di rendere il mucchietto di brace quanto più possibile simile a un cono.
All'arrivo del priore, aprono i vecchi libri ingialliti dell'Offizio della B. V. Maria e il rito comincia.
Il priore recita la Salutazione e i cantori cominciano a salmodiare, cantando a cori alterni i versetti dei salmi e dei cantici.
Intanto arriva qualche ragazzo e subito gli mettono in mano un libro dell'Ufficio, indicandogli la pagina e il versetto e incoraggiandolo ad unirsi al coro. Sperano i vecchi confratelli, così facendo, che la tradizione della congrega e dell’Ufficio si perpetui.
Speranze vane...
Alle antifone, il priore suona il campanello e un cantore, a turno, si alza e canta da solo. Poi i due cori riprendono.
Eccoci alle Lezioni. La prima è lo stesso priore a cantarla, con voce chiara e intonata; le altre sono cantate dall’assistente o da uno dei cantori, sempre a turno. Il coro, unito risponde: amen.
Siamo all'inno "O gloriosa Virginum": i due cori, al suono del campanello, si alzano e cantano un quaternario per ciascuno, con voce particolarmente patetica, ispirata.
Poi, le Laudi. Quanto partecipato sentimento nel cantare le lodi della natura vivente e inanimata al Creatore!
Il Cantico di Zaccaria è il capodopera dei vecchi cantori, confratelli della Congrega.
I due cori cantano in piedi, all'unisono. Ce la mettono tutta. Il tono, si fa alto e vibrante. L'espressione dei volti è ispirata. Hanno certamente penetrato, essi, umili contadini e artigiani, l'intimo senso dei concetti espressi in quei mirabili versetti. Avvertono l'eterno ansito dell'uomo, del cristiano, per la giustizia e la santità; recepiscono il messaggio della salvezza; si rafforza nei loro cuori la speranza della misericordia. Con quanta passione la voce di Cenzitto Pettinicchio sovrasta le altre, pure così elevate e vibranti, ai versetti: «Illuminare his qui in tenebris sedent: ad dirigendos pedes nostros in viam pacis»...
I canti si spengono. Nei cuori permane l'eco di quella invocazione che è anche una promessa: facci luce, Signore, e dirigi i nostri passi per le vie della pace.
Domenico D'Andrea
Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.