top of page

La Piazza


Piazza Stanislao Falconi negli anni '30.

La Piazza occupava un posto importante nella considerazione di tutti, specie dei ragazzi.

Essa si identificava con la Torre, col palazzo municipale (l'ex palazzo ducale), con le case che vi si affacciavano, tutte, chi più chi meno, di aspetto pretensioso e, perché no, un po' civettuolo, ed anche con i grandi sedili di pietra all'inizio della scalinata, sempre occupati.

Rientravano pure, in certo qual modo, nel concetto di Piazza, la guardia municipale, il Milionario e il Centenario, i fruttivendoli, zi Ciano e il suo negozio, gli uomini che si crogiolavano al tiepido sole dei pomeriggi invernali, appoggiati ai muri delle case.

 

La Torre

La campanella della torre, la mattina, alle nove meno dieci suonava tre volte, con brevi intervalli, per avvertire i bambini che era l'ora di andare a scuola. Frotte di scolari, con le borse di panno a tracolla, confezionate dalle mamme, si affrettavano su per la salita del Colle. Sembra di udire ancora il suono allegro e per un certo verso birichino di quella voce! Come pure i tocchi sonori e vibranti, ma contenuti, che scandivano le ore e quelli più sottili e argentini dei quarti. La Torre era un punto di riferimento: era entrata nel costume, nelle quotidianità. Si

viveva, per così dire, all'ombra della Torre, specie per ciò che essa rappresentava: la memoria del passato, l'anello di congiunzione delle generazioni.

Rustica quanto si vuole, senza pretese artistiche, la Torre era pur sempre il prodotto di una remota epoca della storia cittadina, il frutto del lavoro delle antiche generazioni, che avevano espresso con essa la loro fede nella vita e la loro speranza nel futuro.

Il paese aveva la sua torre come tanti vecchi borghi d'Italia, e questo poteva dare anche un senso d'orgoglio. Ciò nonostante, se ne è andata nell'indifferenza quasi generale, senza un fremito.

Eppure quelle pietre vecchie, che ruzzolavano sotto i colpi del piccone demolitore, tra nubi di polvere e calcinacci che sapevano di passato, si portavano via qualcosa di noi. Ma chi se ne rendeva conto allora?

Acqua passata...! Bene...! Dopo tutto, si dirà, c'è, sulla nuova pavimentazione, la traccia, ben visibile, delimitante la pianta dell'antica torre. È vero, ma c'è il rischio che essa resti a perenne testimonianza della vittoria dell'irrazionalità e dell'incultura sulle ragioni dello spirito.

 

Zi Sebastiano

Ecco zi Ciano intento alla vendita dietro alla bella vetrina a tre ante del suo negozio.

Sebastiano era un negoziante come quelli che tutti si augurano di trovare appena entrati in un negozio. Scrupoloso, ordinato, preciso, teneva il suo piccolo emporio sempre in perfetta efficienza. Vi si trovava un po' di tutto, dalle smicce per i calzolai ai cappelli borsalino, alle bottigliette di profumo.

Zi Ciano serviva gli avventori con calma e pazienza: pazienza che neppure le più esigenti delle sue clienti gli facevano perdere.

Discreto, riservato, moderato nel parlare, riusciva a soddisfare tutti. Praticava prezzi onesti: quel tanto per coprire le spese e per un giusto onesto guadagno, forse troppo onesto. Questa la sua etica professionale.

Quando si trovava di fronte a certe richieste che egli non poteva esaudire senza contravvenire all'etica a cui si è accennato, assumeva un aspetto mesto, compunto, ma non tirava in ballo queste e quelle ragioni per giustificare il suo atteggiamento.

Ciò faceva dire a qualcuno: «Piange zi Ciano».

In gioventù aveva lavorato da falegname. Nel retro del negozio c'era il suo banco, dove, in attesa dei clienti, mastreggiava con gli arnesi.

Faceva anche il parrucchiere. E qui, invece della consueta loquacità propria del mestiere, usava ancora più discrezione.

Radeva calmo, paziente, premuroso.

 

Noè

Noè amava la natura e l’arte in tutte le sue manifestazioni.

Nella sua casa, e due passi dalla Torre (dei nostri ricordi), si conservano alcuni suoi quadri che rivelano nei toni delicati, nella cura dei particolari e in tutto l'impianto pittorico la sua fine sensibilità.

Amava la vita all'aria aperta, il contatto diretto con la natura. Conosceva i boschi e i monti del paese fin negli angoli più riposti. Nelle belle giornate estive difficilmente lo trovavi in casa. Era sui monti, quasi sempre solo. Oggi un'escursione alle Mura Ciclopiche, domani alla Fonte dell'Orso, a ridosso di Monte Capraro, un altro giorno alle faggete della Cannavina, dietro a Monte Campo, oppure sul Monte, alla ricerca delle nascoste tracce dell'eremo di San Giovanni Battista.

Una volta l'anno percorreva tutta la cresta di Monte Capraro, da Cavallerizza ai Torrioni della Piana: un'escursione ardua per il cammino accidentato. Ma Noè, escursionista solitario, non era tipo da spaventarsi. Nel silenzio di quelle vette, di fronte all'ampio, maestoso spettacolo che gli si offriva allo sguardo, si sentiva in perfetta armonia con la natura e vicino a Dio, in cui profondamente credeva.

 

I fruttaroli

I fruttivendoli allineavano i loro cestoni da Vincenzino Conti alla macelleria Sozio.

Venivano da Villa Canale e portavano frutta di buona qualità.

I ragazzi non avevano occhi che per i cesti, specie quelli dei fichi bianchi col latice sul gambo, che i venditori mettevano in mostra, dopo aver rimosso le larghe foglie con cui li ricoprivano per conservarli freschi. Erano una grossa tentazione.

I ragazzi della Chiesa ronzavano sempre lì intorno insieme con le vespe, che volteggiavano un po' più in alto: gli uni e le altre aspettando il destro per un assaggio. E il destro per i ragazzi si presentava quando c'era folla. Allora qualcuno si intrufolava fra le gambe dei compratori e, facendo finta di niente, pescava con la mano nel cesto e poi via di corsa a rintanarsi nel primo portone aperto dietro la torre. Il fruttarolo strepitava ed accorreva allora Antonio Catena, la guardia municipale, a passi lunghi, regolati del resto sulle sue gambe, e con la visiera del berretto prominente, per ristabilire l'ordine. Ma succedeva che più che di reprimende, Antonio si preoccupasse di calmare la protesta dei fruttivendoli. Qualche volta gli riusciva di afferrare per l'orecchio il piccolo reo e allora sì che erano... briscole, a parole s'intende.

Talvolta i fruttaroli, forse anche su sollecitazione di Antonio, offrivano ai ragazzi qualche frutto, certo non di prima scelta: per tenerli alla larga. Per un po' il campo rimaneva sgombro: solo per un po', ma dopo un paio di minuti ecco rispuntare, sornioni, gl'incorreggibili discoli, assolti per altro preventivamente con tante scuse; e il gioco, non privo di qualche rischio ma sempre esaltante, ricominciava.


La Piazza di Capracotta oggi (foto: A. Mendozzi).
 

I mietitori

A luglio, quando il grano nei campi biondeggiava, ormai maturo, venivano i mietitori, reduci da altre campagne, giù nel piano.

Portavano il falcetto, la falciglia, sulle reni come una daga, con la punta infilata nella guaina di cuoio. Calzavano zampitti di gomma o di tela cerata e portavano a tracolla il tascapane, dove riponevano i poveri effetti personali.

Seduti sui grandi sedili di pietra della piazza e sui gradini della scalinata, coi cappelli di paglia sui volti cotti dal sole, ciarlavano allegri e attendevano che la sera venissero ad impegnarli a giornata. La sera la piazza formicolava di gente: si contrattava. Pattuita la mercede, i mietitori si recavano nelle case per avere un punto di riferimento la mattina dopo. All'alba erano già in partenza per raggiungere i campi, spesso a qualche ora di cammino dal paese.

Eccoli al lavoro sotto il solleone. Curvi sulle messi, con la sinistra, le cui dita sono protette da guaine di canna, abbrancano una manciate di spighe e le recidono rapidamente con la falciglia impugnata con la destra. Posano le spighe recise a terra, tra le stoppie fresche, e formano delle mannelle. Fattene molte, le raccolgono e le legano con le stesse spighe in manocchi.

Prima di mezzogiorno nel campo mietuto è una selva di covoni ritti al sole.

È l'ora della colazione. I mietitori si siedono in cerchio e attingono tutti dal grande piatto in comune. La vivanda preferita è la composta, un misto di ortaggi freschi e sottaceto, alimento nutriente e dissetante. Di tanto in tanto si passano l'un l'altro la fiaschetta del vino e bevono a garganella.

Il sole cade. Finalmente...! Che giornata, che caldo...!

I mietitori con la schiena rotta lasciano il lavoro e riprendono la via del ritorno.

La sera un buon piatto di minestra calda, un bicchiere e via a buttarsi sul giaciglio di paglia nella stalla, nella pagliera.

 

Zi Vincenzo organista

Sotto alla piazza, a metà della scalinata, abitava zi Vincenzo, sarto ed organista.

La sua bottega, dove normalmente, con i tempi che correvano, rivoltava i vestiti e faceva qualche paio di pantaloni, dava su un piccolo spiazzo, sul quale ruzzolavano i bimbi della scalinata.

Passando lì davanti lo vedevi dietro la vetrina, col grosso ferro da stiro in mano o intento a cucire.

Sbarcava il lunario alla meno peggio, come poteva, tra la bottega e l'organo, tirando su la numerosa famiglia.

Quando c'erano le funzioni in chiesa, zi Vincenzo lasciava l'ago e il filo e andava a raggiungere l'organo, a passi corti per via della gamba, con la mantellina che gli scendeva appena sopra ai ginocchi, il berretto sulla testa, che sembrava che dovesse cadere da un momento all'altro, e i baffetti che gli facevano la faccia più seria, senza però che riuscissero a nascondere la sua innata bonomia.

Su all'organo lo si vedeva sporgere con la testa dalla balaustra e lo si sentiva cantare con quella sua voce secca, inconfondibile, dal tono tra il mesto e il sostenuto, con quei grandi allunghi.

 

I calderai

Più giù c'erano i calderai. Quando il tempo lo permetteva, uscivano all'aperto e lavoravano il rame, seduti a cavalcioni di una predella.

La scalinata e le vie vicine risuonavano tutto il giorno dell'eco dei colpi di martello, che cadevano sugli utensili di rame in lavorazione, precisi, sonori, con ritmo cadenzato come i battiti di un orologio.

 

Don Giacinto

Don Giacinto Conti abitava pure lui sotto alla piazza, in quel vicolo che tutti chiamavano e chiamano ancora la rufa di don Giacinto.

Aveva a pianterreno la sua bottega, dove lavorava l'oro. Ma questo lavoro non occupava molto del suo tempo. Le sue attività preminenti erano altre: l'insegnamento e il giardinaggio.

Nutrito di studi classici, ricco di comunicativa, con uno spiccato senso dell'umorismo e dell'ironia, che talvolta volgeva in sarcasmo, don Giacinto era particolarmente portato all'insegnamento. E così passavano per la sua bottega, anno dopo anno, leve di ragazzi che si avviavano agli studi medi, per apprendere l'analisi logica e i primi rudimenti del latino. Il pomeriggio, passando davanti alla sua bottega, si sentiva analizzare soggetto e predicato e declinare la rosa.

L'essenza del suo metodo pedagogico consisteva nell'impartire gli elementi del sapere con un pizzico di buonumore, confidenzialmente, in modo che gli allievi si sentissero a loro agio. E con ciò don Giacinto dimostrava di avere imbroccata la strada giusta.

Dava ripetizioni anche ai bambini delle elementari. Una volta, all'inizio del nuovo anno scolastico, i piccoli allievi, che avevano già cominciato le ripetizioni, ma che ovviamente frequentavano le elementari, scrissero, ispirati da lui, sul quaderno: "Sono terminate le vacanze estive. Comincia il nuovo anno scolastico. Per i signori maestri cominciano le vacanze autunnali".

A proposito della sua vena umoristica, si ricordano ancora le sue famose burle, come quella di carnevale. Gli spettatori, che avevano tutti pagato il biglietto della recita, stanno ancora aspettando che cominci lo spettacolo.

Il pomeriggio, terminate le lezioni, don Giacinto scendeva nell'orto e si dedicava al giardinaggio e all'orticultura.

L'orto, visto da fuori, non sembrava gran che, ma se ci si andava dentro ci si rendeva conto di ciò che può fare la passione congiunta alla perizia. Piante da frutto, fiori, ortaggi: il tutto in una sapiente collocazione. Meli, peri, prugni, amareni, e, tra gli uni e gli altri, al posto giusto, aiuole di fiori, spazi coltivati a ortaggi.

Vi si respirava un'aria di pace agreste.

 

Gli zampognari

Che sorpresa per i ragazzi, tornati a casa da scuola, trovare sul camino la nota e cara figurina in bianco e nero del presepe!

Sono venuti dai lontani paesi della Valle del Volturno gli Zampognari per la novena di Natale.

Si annunciano suonando al portone di casa due note acute di piffero. Sono due, sempre quelli e perciò divenuti familiari: il maggiore con la zampogna, in cima alla quale, appena entrato in casa, appende il cappello; il minore con il piffero, la tutarella. Il primo comincia a dare fiato alla zampogna, dimenandosi lievemente sulle gambe. Le donne s'inginocchiano appoggiandosi alle sedie. L'animo di tutti nell'attesa è come sospeso, colmo di emozione. Finalmente esplodono le note della zampogna, sonore, calde, accompagnate da quelle aperte, squillanti del piffero e il dolce motivo della novena scende dentro e blandisce l'animo.

Di tanto in tanto il pifferaio smette per un momento e biascica una breve giaculatoria, incomprensibile.

Terminata la novena, gli zampognari salutano e se ne vanno, lasciandosi dietro una dolce aria di attesa e di mistero.


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

bottom of page